Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

martedì 31 gennaio 2023

Marcella e il monachesimo domestico

Marcella, nobile donna romana, rimasta vedova a pochi mesi dalle nozze, decise di vivere, in casa propria, quella forma di monachesimo domestico in uso ai suoi tempi. Poi, quando venne a conoscenza del monachesimo egiziano ormai noto a Roma soprattutto grazie alla Vita di Antonio, redatta dal patriarca Atanasio, trasformò il suo palazzo sull’Aventino in una sorta di monastero dove confluirono molte nobili donne romane. Marcella, dopo ripetute insistenze, riuscì a convincere Girolamo a sostenere questo gruppo di donne offrendo la sua competenza biblica e i suoi consigli spirituali. Assai dotata, curiosa, esigente, Marcella non riceveva supinamente gli insegnamenti del suo padre spirituale e maestro, ma formulava obiezioni, sollevava dubbi, lo stimolava a ulteriori ricerche e Girolamo, che la definisce “amantissima della fatica” (Lettera 30,14) oppure “mio datore di lavoro” (Lettera 28,1), nasconde sotto queste parole scherzose la sua altissima stima per questa donna che non si limita a leggere e studiare le Scritture nelle lingue originali, ma le mette in pratica nella sua vita quotidiana.
Alla partenza di Girolamo per la Terrasanta, Marcella, a differenza delle sue compagne, decide di restare a Roma, dove continua la sua vita di studio delle Scritture e interviene, con autorevolezza e competenza, nelle questioni teologiche del tempo.
Muore nel 411, dopo aver sperimentato personalmente la violenza dei goti che avevano invaso Roma. Girolamo ne narra la vita nella Lettera 127, dedicata alla sua fedele discepola Principia.

Tracce di lettura

Incredibile era il suo zelo per le divine Scritture, cantava incessantemente: “Ho nascosto nel mio cuore le tue parole per non peccare contro di te” (Sal 119,11), e quei versetti sull’uomo perfetto: “E si compiace nella legge del Signore, e nella sua legge medita giorno e notte” (Sal 1,2). Sapeva che la meditazione della legge non consiste nel ripetere quello che sta scritto, come pensano, fra i giudei, i farisei, ma nell’agire secondo quel detto dell’Apostolo: “Sia che mangiate, sia che beviate, qualunque cosa facciate, fate tutto a gloria del Signore” (1Cor 10,31), e secondo le parole del profeta che dice: “Ho capito a partire dai tuoi comandamenti” (Sal 119,104), di modo che, dopo aver adempiuto i comandamenti, sapeva di meritare l’intelligenza delle Scritture.
(Girolamo, Lettera 127,4)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. Strappare la salvezza

Lettura

Marco 5,21-34

21 Essendo passato di nuovo Gesù all'altra riva, gli si radunò attorno molta folla, ed egli stava lungo il mare. 22 Si recò da lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, vedutolo, gli si gettò ai piedi 23 e lo pregava con insistenza: «La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva». 24 Gesù andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
25 Or una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia 26 e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando, 27 udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Diceva infatti: 28 «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita». 29 E subito le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male.
30 Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi mi ha toccato il mantello?». 31 I discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?». 32 Egli intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo. 33 E la donna impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. 34 Gesù rispose: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarita dal tuo male».

Commento

Rifiutato dai Gadareni, Gesù si sposta sulla riva occidentale del Mare di Galilea e subito viene circondato dalla folla. Un capo della sinagoga gli si avvicina per chiedere la guarigione della figlia, gravemente malata. I capi della sinagoga erano ufficiali che presiedevano il gruppo degli anziani e si occupavano di dettagli amministrativi, come il decidere chi avrebbe letto e pregato le Scritture durante il culto. La posizione era tenuta in alta considerazione.

Per restituire la vita alla figlia che sta morendo, Giàiro si spoglia del ruolo che riveste e si affida completamente a Gesù. L'imposizione delle mani, richiesta da Giàiro è un gesto che ricorre frequentemente nel Vangelo di Marco e serve a trasmettere agli infermi la forza risanatrice.

All'interno di questo episodio se ne incastona un'altro. Quello di una donna affetta da una continua emorragia che oltre a provocarle una lunga sofferenza la rendeva ritualmente impura (Lv 15,25-27); le era impedito ogni atto di culto e ogni contatto con la gente; la sua vita era pertanto privata di una relazione con Dio e con gli uomini. L'insuccesso delle numerose e costose terapie mediche cui si è sottoposta la porta a riporre ogni fiducia nei guaritori. Rispettosa del divieto stabilito dalla legge per la sua impurità rituale, la donna non tocca direttamente Gesù, ma si limita a sfiorarne il mantello.

La domanda di Gesù - «Chi mi ha toccato il mantello?» - non è un rimprovero, né è dovuta a ignoranza, ma alla volontà di far emergere la figura della donna dallo sfondo indistinto della folla, affinché possa dare testimonianza della propria fede. Mentre la donna si prostra davanti a Gesù, riconoscendolo in tal modo come Signore, egli la riconosce come figlia (v. 34), generata dalla fede.

Sia nel caso di Giàiro - il quale chiede a Gesù di imporre le mani alla figlia malata - che nel caso dell'emorroissa viene premiata l'intima convinzione che il contatto fisico con Gesù, per chi crede, ha il potere di guarire. Che sia la fede, che sta dietro il gesto fisico, a causare la guarigione è attestato dalle parole di Gesù: «Figlia, la tua fede ti ha salvata» (v. 34). La donna non viene semplicemente guarita per la sua fede, ma ottiene la salvezza integrale, del corpo e dello siprito.

Gesù accetta di avvicinarsi e si lascia avvicinare da ciò che è considerato ritualmente impuro. Il numero dodici che accomuna le due vicende - la ragazzina morente, dell'età di dodici anni, e l'emorroissa malata da dodici anni - sembra dare volti diversi all'esperienza della fragilità umana, che si manifesta nella malattia e nella morte. La compassione di Gesù è al di sopra delle norme della legge ed egli prende su di sé la sofferenza e l'umiliazione, proprio come il Servo annunciato dal profeta Isaia (Is 52-53).

La donna protagonista di questo miracolo dimostra che anche il minimo contatto con Gesù è sufficiente per "strappargli" la salvezza. Non è indispensabile avere esperienze mistiche, ma anche una fede piccola come un granellino di senape (Mt 17,20) può ristabilire la nostra comunione con Dio e sanare le nostre relazioni con gli uomini.

Preghiera

Suscita in noi, Signore, la fede capace di allontanare ogni timore; affinché possiamo servirti con gioia e glorificare il tuo santo Nome. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 29 gennaio 2023

Ciò che la sola legge non può dare

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA QUARTA DOMENICA DOPO L'EPIFANIA


Colletta

O Dio, che sai che siamo posti nel mezzo di tanti e grandi pericoli, cui non possiamo far fronte per la fragilità della nostra natura; concedici forza e protezione e liberaci da ogni tentazione. Per Gesù Cristo, nostro Signore. Amen.

Letture

Rm 13,1-7; Mt 8,1-13

Commento

L'evangelista Matteo fa seguire al "discorso della montagna" una serie di miracoli compiuti da Gesù, nel quadro più generale di una sezione narrativa sulla predicazione del regno dei cieli. Dopo essersi manifestato come sommo legislatore, Gesù si presenta nella sua qualità di medico delle anime e dei corpi. 

Uno dei mali che la cultura giudaica riteneva un segno eminente della riprovazione divina era la lebbra. Il primo uomo che Gesù guarisce è proprio un lebbroso, dimostrando che egli può allontanare qualsiasi genere di peccato. Considerata la massima espressione di impurità rituale, la lebbra - per la quale non si conoscevano trattamenti medici - doveva essere diagnosticata da un sacerdote, il quale verificava  anche l'eventuale guarigione del malato. Al sacerdote spettava dunque la diagnosi, ma non la cura. Sanando un lebbroso Gesù dimostra di essere colui che offre ciò che la legge non può dare: la guarigione e la restituzione al servizio di Dio. 

La chiesa deve guardarsi dallo scadere in uno sterile legalismo, zelante nel condannare il peccato e minacciare le sue conseguenze, ma incapace di suscitare conversione e guarigione. Toccando il lebbroso Gesù contravviene alla legge giudaica, ma in questo modo dimostra la sua superiorità ad essa e la sua completa separazione dal peccato, pur dimorando tra i peccatori. Non teme di toccare le nostre piaghe colui che ha sanato la nostra umanità assumendola su di sé. 

Il tocco e la parola di autorità di Gesù - "Lo voglio, sii sanato" (v. 3) - sono sufficienti per suscitare una immediata guarigione. Il miracolo di guarigione del lebbroso mette in guardia da ogni forma di purismo religioso, dalla tentazione di stabilire una barriera tra la santità di Dio e le miserie dell'uomo, di fuggire non solo il peccato ma anche il peccatore. Siamo chiamati invece a pregare per la guarigione dei nostri mali, ma anche di quelli del nostro prossimo, come attesta l'umiltà e la carità del protagonista del successivo racconto di guarigione. 

Con il miracolo compiuto a favore del servo del centurione cominciano ad avverarsi le parole profetiche pronunciate da Simeone alla presentazione di Gesù al tempio, riconosciuto come gloria di Israele ma anche come "luce per illuminare le genti" (Lc 2,32). Le parole del centurione tradiscono infatti la sua appartenenza pagana, dal momento che egli non si ritiene degno di una visita di Gesù, il quale, entrando nella sua casa, si sarebbe esposto all'impurità rituale secondo la legge ebraica. 

Abituato al comando e consapevole dell'autorità di un ordine, al centurione basta la semplice parola di Gesù per avere la certezza della guarigione del suo servo. Con tale attestazione di fede e con l'utilizzo dell'appellativo "Signore" il soldato romano dimostra di riconoscere la sovranità di Cristo e per questa ragione viene annoverato tra i figli di Abramo, padre di coloro che credono. 

Gesù rimprovera l'incredulità di coloro, tra i figli naturali del patriarca, che rifiutano il suo insegnamento di fronte ai prodigi di cui sono stati testimoni. Chi cerca il miracolo per credere non avrà mai "prove" a sufficienza, ma a chi crede e chiede con umiltà nulla sarà negato per la salvezza propria e di quelli che egli ama.

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 28 gennaio 2023

Tommaso d'Aquino. Rendere ragione della speranza

Nel 1274, mentre si sta recando al concilio di Lione, muore nei pressi dell'abbazia di Fossanova Tommaso d'Aquino, frate domenicano.

Nato nei pressi di Aquino, vicino a Napoli, Tommaso entrò a circa diciotto anni nell'Ordine dei predicatori. Discepolo di Alberto Magno a Colonia e a Parigi, egli insegnò in queste città e poi a Roma, Bologna e Napoli. Tommaso fu autore di una considerevolissima opera teologica, che lasciò incompiuta, e fu con Bonaventura il più grande pensatore cristiano d'occidente del XIII secolo.

La sua originalità sta soprattutto nel modo in cui seppe esprimere la fede della chiesa nella cultura del suo tempo, specie per ciò che concerne la teologia della creazione e della libertà dell'uomo, partendo dalla Scrittura e dai padri della chiesa, e accogliendo la riscoperta del pensiero aristotelico che si era attuata a quei tempi.

Umile e sapiente, egli seppe unire uno spirito speculativo alla prudenza di uno spirito pratico, il dominio di un temperamento violento alla tenera devozione per Cristo crocifisso e al dialogo continuo con Dio.

Tommaso fu proclamato dottore della chiesa da papa Pio V nel 1567, e la sua teologia ebbe un ruolo di primissimo piano nei secoli successivi, soprattutto al concilio di Trento, dove alla sua Somma teologica fu accordato un onore senza precedenti nella storia della chiesa d'Occidente.

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San Tommaso d'Aquino (1224/25-1274), affresco del beato Angelico, Museo nazionale di San Marco, Firenze

Tracce di lettura

L'insegnamento cristiano fa uso anche della ragione umana, non però per dimostrare la fede - in tal modo si disconoscerebbe il merito proprio della fede -, ma per chiarire alcuni punti che si tramandano nell'insegnamento stesso. Poiché infatti la grazia non distrugge la natura, ma anzi la porta a compimento, è bene che la ragione si ponga al servizio della fede, allo stesso modo in cui l'inclinazione naturale della volontà asseconda la carità. Per questo l'Apostolo afferma: «Rendete ogni intelligenza soggetta all'obbedienza di Cristo».
(Tommaso d'Aquino, Somma teologica I, q.1, a.8)

Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Efrem di Nisibi o il Siro, diacono e innografo

Il 9 giugno del 373 muore a Edessa Efrem, diacono della chiesa di Nisibi e innografo tra i più amati nelle chiese di tradizione siriaca.
Efrem era nato attorno al 306 da genitori cristiani, ed era cresciuto nella città di Nisibi sotto la guida spirituale del vescovo Giacomo, che lo volle come interprete delle Scritture nella locale scuola teologica.
Divenuto un «figlio del Patto», cioè uno di quei solitari dediti nelle chiese di Persia all'ascesi, alla preghiera e alla carità nella rinuncia al matrimonio, Efrem crebbe a contatto delle scuole esegetiche ebraiche fiorenti nella sua città. Innamorato della bellezza spirituale, cercò di esprimerla attraverso il genere innico, ritenendolo più adeguato di quello speculativo per narrare i misteri di Dio senza cadere nella sfrontatezza o nella bestemmia. Per produrre i suoi canti, utilizzò in primo luogo quelle che egli stesso definiva le «tre arpe» di Dio: le Scritture ebraiche, il Nuovo Testamento e il libro della natura.
Uomo di grande comunione ecclesiale, mise a disposizione dei vescovi nisibeni, di cui fu diacono, i propri doni spirituali senza risparmiarsi, e fu molto attento al ruolo e alla presenza femminile nella chiesa.
Quando Nisibi cadde in mano persiana nel 363, Efrem fu costretto a fuggire a Edessa, dove avviò una fiorente scuola teologica, che rimase in vita a lungo dopo la sua morte. La sua autorevolezza fu tale che anche le chiese d'occidente lo proclamarono dottore e maestro della fede.


Tracce di lettura

Signore, fammi tornare ai tuoi insegnamenti:
volevo ritirarmi innanzi ad essi,
ma mi accorsi del mio impoverimento.
L'anima non trae alcun beneficio, infatti,
all'infuori del tempo in cui conversa con te.
Ogni volta che ho meditato su di te,
da te io ho ricevuto un autentico tesoro;
quale che fosse il tuo aspetto contemplato,
un fiume sgorgava dal tuo seno:
non vi era modo per me di contenerlo.
La tua fontana, Signore, è nascosta
agli occhi di colui che di te non è assetato;
il tuo tesoro vuoto appare
a colui che ti respinge.
Amore è il tesoro delle tue riserve celesti.
(Efrem, Inni sulla fede 32,1-3)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

venerdì 27 gennaio 2023

Fermati 1 minuto. Hai mai colto l'attimo in cui una pianta cresce?

Lettura

Marco 4,26-34

26 Diceva: «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; 27 dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. 28 Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. 29 Quando il frutto è pronto, subito si mette mano alla falce, perché è venuta la mietitura».
30 Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? 31 Esso è come un granellino di senapa che, quando viene seminato per terra, è il più piccolo di tutti semi che sono sulla terra; 32 ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra».
33 Con molte parabole di questo genere annunziava loro la parola secondo quello che potevano intendere. 34 Senza parabole non parlava loro; ma in privato, ai suoi discepoli, spiegava ogni cosa.

Commento

Il parlare in parabole di Gesù indica un metodo pedagogico che stimola il coinvolgimento degli uditori e richiede una partecipazione attiva del loro intelletto. A coloro che vogliono intendere offre la possibilità di una spiegazione ulteriore, innalzando la loro conoscenza, ma a coloro che non lo accolgono resta oscuro il senso delle sue parole. 

Nella parabola del seme che cresce il seminatore e il mietitore sono la stessa persona. Il seme cresce da solo, senza alcun intervento umano, come il regno di Dio, iniziato da Gesù con la proclamazione del vangelo. Esso si sviluppa fino al tempo della mietitura, il giudizio finale stabilito da Dio. Questa crescita e questa raccolta richiamano sia la vita del cristiano che l'instaurarsi del regno nella storia. 

La progressione nella crescita del seme (stelo, spiga, chicco) indica che, la grazia, così come la natura, hanno bisogno di fare il loro corso, richiedono uno sviluppo graduale. I tempi di Dio non sono i tempi frettolosi dell'uomo "urbano", ma piuttosto i tempi del contadino, la cui pazienza, nell'operosa preparazione del terreno e nell'attesa da una stagione all'altra, sono premiate con un raccolto favorevole.

Nella parabola sul grano di senapa, le dimensioni esigue di questo seme rimandano all'azione invisibile della grazia che opera in noi e nel mondo, mentre la grandezza della pianta rappresenta l'universalità del regno di Dio. 

Non dobbiamo scoraggiarci se non vediamo risultati immediati nel nostro percorso di crescita spirituale; è necessario che discendiamo nelle profondità dell'humus, che diventiamo umili attraverso le prove e i fallimenti della nostra vita. Solo quando ci saremo totalmente spogliati della "scorza" del nostro ego potremo diventare come un albero piantato lungo corsi d'acqua, che darà frutto a suo tempo (Sal 1,3). 

Quando incontra un terreno buono la parola di Dio produce, in modo inesplicabile e senza far rumore, frutti di grazia. Qualcuno ha mai colto l'attimo in cui una pianta cresce? Ma quando giunge a piena maturazione, come l'arbusto di senape che offre riparo alla sua ombra, il cristiano diviene una benedizione per il mondo. 

La parabola del seme e quella del granello di senapa ci insegnano che la natura e la grazia non solo non fanno "salti" (natura non facit saltus) ma neanche operano con violenza. La storia terrena di Gesù ci mostra che egli non si impone e neanche si contrappone a coloro che lo rifiutano mettendolo in croce. 

Non sarebbe insensato un contadino che cercasse di far crescere il seme con la forza? L'agricoltura è attività per uomini miti come Abele e Giacobbe. Prendiamo esempio dalle parole di Gesù affinché uno zelo eccessivo non rischi di farci rovinare la delicata opera della grazia nel nostro cuore e in ogni uomo.

Preghiera

Signore, sia che vegliamo, sia che dormiamo, la tua grazia opera misteriosamente in noi; il tuo Spirito ci conceda un'attesa fiduciosa, nella certezza che ti prendi cura del tuo campo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 26 gennaio 2023

Fermati 1 minuto. Gli abbagli del mondo e la luce di Cristo

Lettura

Marco 4,21-25

21 Diceva loro: «Si porta forse la lampada per metterla sotto il moggio o sotto il letto? O piuttosto per metterla sul lucerniere? 22 Non c'è nulla infatti di nascosto che non debba essere manifestato e nulla di segreto che non debba essere messo in luce. 23 Se uno ha orecchi per intendere, intenda!».
24 Diceva loro: «Fate attenzione a quello che udite: Con la stessa misura con la quale misurate, sarete misurati anche voi; anzi vi sarà dato di più. 25 Poiché a chi ha, sarà dato e a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha».

Commento

Gesù non ha mai considerato il suo insegnamento in modo elitario; è invece responsabilità dei discepoli annunciare il vangelo del regno al mondo intero. Anche quando le parabole sono spiegate in privato, il fine è di consentire di svelarne il senso pubblicamente. 

"La tua parola nel rivelarsi illumina, dona saggezza ai semplici" afferma il salmista (Sal 118,130); e nelle parole di Gesù riecheggia ciò che Dio dice al suo popolo nel libro del Deuteronomio: "Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica" (Dt 30,11-14). 

Anche il vangelo è una parola che può essere compresa e messa in pratica da ogni uomo. Compresa perché non destinata a un circolo di intellettuali, ma anzi può essere accolta solo da una ragione umile. Messa in pratica perché parola efficace, che lo Spirito porta a compimento in chi la accoglie con fede. Coloro che ascoltano la parola di verità e la adempiono riceveranno una comprensione ancora maggiore delle cose di Dio. 

Come rappresentato nella parabola del seminatore, Dio si aspetta un generoso ritorno dalla grazia che ci ha elargito. Se saremo servi fedeli egli sarà un maestro fedele e ci donerà una misura di grazia ancora più grande. I doni di Dio si moltiplicano nella misura in cui vengono impiegati. Ma chi seppellirà il talento ricevuto gli sarà tolto anche quello (Mt 25,14-30), perché ha tradito la fiducia accordatagli dal Signore. 

Cristo è il sole di giustizia, ma noi cosa siamo chiamati a essere? Lampade che attingono alla sua luce e bruciano per quanto ci è dato di restare in questo mondo. Un mondo dove tante parole futili si accavallano e tanti abbagli ci seducono, ma il Verbo incarnato è parola affidabile, lampada per i nostri passi e luce sul nostro cammino (Sal 118,105). Gesù ci chiede di non bruciare per noi stessi, come una lampada sotto il letto, ma di essere luce che si dona al mondo (Mt 5,14).

Preghiera

Alla tua luce, Signore, vediamo la luce; concedici di vincere  le seduzioni del mondo e di donarci generosamente ai nostri fratelli e alle nostre sorelle. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 25 gennaio 2023

La conversione di Paolo, afferrato dalla misericordia

Oggi le chiese d'occidente ricordano la rivelazione di Gesù Cristo a Saulo di Tarso, ebreo della Cilicia, zelante fariseo educato alla scuola di Rabbi Gamaliele, chiamato a riconoscere in Gesù di Nazaret il Messia atteso da Israele e ad annunciarlo ai suoi fratelli ebrei e a tutte le genti. Mentre si recava a Damasco per condurre in catene a Gerusalemme i seguaci della "via" (At 9,2) di Cristo, Saulo si sentì interpellato dal Signore risorto, quel Gesù che egli perseguitava nei suoi discepoli. 
Accecato dalla rivelazione ricevuta, fu condotto nella comunità cristiana di Damasco e qui Anania gli impose le mani perchè recuperasse la vista e fosse colmato dallo Spirito santo. Ricevuto il battesimo, Saulo o Paolo, come viene chiamato in seguito, cominciò ad annunciare dapprima ai Giudei e poi ai pagani "la parola della croce" (1Cor 1,18), il mistero della salvezza donata in Cristo attraverso l'abbassamento fino alla morte in croce (cf. Fil 2,8). Rivendicando la sua autorità apostolica, Paolo affermò di non aver ricevuto il vangelo da uomini ma "per rivelazione di Gesù Cristo" (Gal 1,12). La sua infaticabile attività di predicazione lo portò a viaggiare per tutto il Mediterraneo; si rivolse soprattutto ai pagani ricevendo il titolo di "apostolo delle genti".
La festa odierna, sorta in Gallia già nel VI secolo, fu estesa a tutto l'occidente a partire dall'XI secolo.

Tracce di Lettura

Se la memoria della conversione di Paolo è così solenne, questo accade perché è utile a quelli che ne celebrano il ricordo. Perché da questa celebrazione il peccatore attinge la speranza del perdono che l'invita alla penitenza; e chi si è già pentito vi trova il modello di una perfetta conversione.
Come è possibile cedere alla disperazione, per quanto grandi siano le nostre colpe, quando si sente che quel Saulo che sempre fremente minacciava strage contro i discepoli del Signore, fu all'improvviso trasformato in vaso d'elezione? Chi potrebbe dire: «Non posso rialzarmi e condurre una vita migliore» se sulla strada su cui il suo cuore era pieno di veleno, l'accanito persecutore divenne subito il predicatore più fedele?
(Bernardo di Clairvaux, Sermone per la conversione di san Paolo 1)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Caravaggio. La conversione di San Paolo (particolare)

Fermati 1 minuto. Il dovere e la grazia dell'annuncio

Lettura

Marco 16,15-18

15 Gesù disse loro: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. 16 Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. 17 E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demòni, parleranno lingue nuove, 18 prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno».

Commento

Gesù, che in precedenza aveva chiesto agli apostoli di predicare il vangelo della salvezza alle pecore perdute della casa di Israele (Mt 10,5-6; 15,24), estende ora questa missione nei confronti del mondo intero (v. 15). Undici apostoli non potranno da soli adempiere a un compito così grande, ma insieme ai settandadue discepoli e ad altri che si aggiungeranno loro di generazione in generazione, getteranno il seme del vangelo verso i quattro angoli della terra. 

Il "grande mandato" è simile nei Vangeli di Matteo e Marco. Attraverso il battesimo si entra nella Chiesa, la comunità di Gesù-risorto, e la funzione della Chiesa è di evangelizzare "ogni creatura" (v. 15).

I miracoli, che all'inizio della predicazione di Gesù sono stati "segni" per suscitare la fede, divengono ora espressione del regno di Dio che si fa strada nella storia. Quella che viene delineata da Gesù e un'umanità riconciliata: la pacifica convivenza con i serpenti velenosi, la capacità di affrancare dagli influssi del male, la ritrovata comprensione senza che si perda la ricchezza delle differenze, sono i segni di un cielo nuovo e di una terra nuova (Ap 21,1), promessi dal Risorto nel nuovo patto siglato sulla croce.

Pur coltivando il dialogo tra fedi e culture differenti, nella solidarietà suscitata dalla comune natura umana e nel riconoscimento della diversità come benedizione, non può essere trascurata l'urgenza e la responsabilità dell'annuncio evangelico: "guai a me se non predicassi il vangelo!" eslama l'apostolo Paolo (1 Cor 9,16), afferrato dalla misericordia del Risorto. 

Annunciare Cristo significa partecipare alla sua missione sacerdotale, per liberare l'uomo da ciò che lo rende schiavo, non lasciarsi danneggiare dalla malvagità di questo mondo ma saperne curare e guarire le ferite. 

Preghiera

Rinnova in noi, Signore, il fervore per l'annuncio della tua Parola; affinché possiamo essere dispensatori della tua grazia che salva e guarisce. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 23 gennaio 2023

Fermati 1 minuto. Il discernimento che origina dalla purezza di cuore

Lettura

Marco 3,22-30

22 Ma gli scribi, che erano discesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del principe dei demòni». 23 Ma egli, chiamatili, diceva loro in parabole: «Come può satana scacciare satana? 24 Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non può reggersi; 25 se una casa è divisa in se stessa, quella casa non può reggersi. 26 Alla stessa maniera, se satana si ribella contro se stesso ed è diviso, non può resistere, ma sta per finire. 27 Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire le sue cose se prima non avrà legato l'uomo forte; allora ne saccheggerà la casa. 28 In verità vi dico: tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e anche tutte le bestemmie che diranno; 29 ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito santo, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna». 30 Poiché dicevano: «È posseduto da uno spirito immondo».

Commento

La specificazione che gli scribi che accusano Gesù provengono da Gerusalemme indica la loro autorità agli occhi del popolo, ma anche il lungo viaggio compiuto per ostacolare la sua attività. La malizia degli scribi è più grande della loro scienza e davanti alla compassione di Gesù lo accusano di agire per mezzo del principe dei demòni.

I miracoli del Signore, il cui scopo è rendere più salda la fede in lui, sono motivo di scandalo per chi lo rifiuta. L'opposizione all'azione liberante del vangelo proviene spesso proprio dai rappresentanti della "dottrina ufficiale".

Beelzebùl era una antica divinità pagana, venerata nel tempio di Ekron, in Filistea. Il secondo libro dei Re, racconta l'episodio in cui l'empio re di Isrele Acazia, mandò a consultare il suo oracolo (2 Re 1,2). La divinità è chiamata dall'autore con la deformazione insultate "Baal-Zebub", che significa "Signore delle mosche", anziché Baal-Zebul, il cui significato è "Baal il sublime". Gesù identifica questa divinità con Satana.

Gesù risponde all'accusa mossagli dagli scribi con un'analogia: occorre essere più forti di Satana per entrare nel suo dominio - "la casa dell'uomo forte" -, contenere la sua azione ("legarlo") e liberare l'uomo che si trova sotto il suo controllo ("saccheggiare la casa"). Le parole di Gesù testimoniano che il diavolo non è un mito, la rappresentazione simbolica dell'idea del male, ma un soggetto personale che pensa e agisce in opposizione a Dio e all'uomo creato a immagine di Dio.

A chi lo accusa, consapevole della falsità della denuncia, Gesù riserva una condanna durissima: la bestemmia contro lo Spirito Santo è il rifiuto cosciente della verità e della conversione e per questo non può essere perdonata "in eterno" (in reatà il termine greco aion indica un lunghissimo lasso di tempo). Dio perdona sempre, ma chi non trova il perdono è colui che sceglie un accecamento volontario. Questi, pur riconoscendo l'opera di liberazione compiuta da Gesù e dai suoi discepoli ne dà un'interpretazione distorta, cercando di disinnescarne la forza.

Gesù esprime la sua condanna con autorità, come attestato dalle parole "In verità vi dico" (gr. amèn légo umin). Siamo chiamati a esercitare un accurato discernimento prima di giudicare il prossimo secondo i nostri schemi mentali. In particolare dobbiamo guardarci dall'invidia - da cui erano mossi gli scribi che accusavano Gesù - che genera divisioni; perché le divisioni sono opera del Maligno. Mentre accusano Gesù di operare per mezzo di Satana gli scribi si comportano proprio come Satana, l'accusatore, che si oppone alla comunione dell'uomo con Dio e dell'uomo con l'uomo.

Solo l'accoglienza di Gesù con cuore puro rende capaci di chiamare male il male e bene il bene. La disobbedienza e la mancanza di fiducia verso Dio accecarono l'uomo e la donna nel giardino di Eden, impedendogli di ottenere proprio ciò che cercavano mangiando il frutto dell'albero: la conoscenza del bene e del male. Quest'ultima è data nell'opera di redenzione attuata da Cristo, parola viva, efficace e fonte di liberazione per coloro che l'accolgono.

Preghiera

Purifica il nostro cuore, Signore, affinché possiamo riconoscere le tue opere meravigliose, glorificando il tuo nome con la voce dello Spirito che ci hai inviato. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 22 gennaio 2023

Il ministero della felicità

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA TERZA DOMENICA DOPO L'EPIFANIA

Colletta

Dio Onnipotente ed eterno, guarda con misericordia le nostre infermità e in ogni nostro pericolo e necessità stendi la tua mano destra per aiutarci e difenderci. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Rm 12,16-21; Gv 2,1-11

Commento

Il Vangelo di oggi ci presenta il primo miracolo pubblico di Gesù, la trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana. Fin dai più antichi lezionari questo evento è collegato all’Epifania, ovvero alla manifestazione di Gesù come il Signore, insieme agli episodi della nascita a Betlemme, dell’arrivo dei Magi e del battesimo al fiume Giordano. 

Giovanni utilizza la parola "segni" (gr. semèion) per indicare otto miracoli pubblici compitui da Gesù per manifestare la sua potenza divina, che può essere riconosciuta con gli occhi della fede. È significativo che il primo di questi segni non sia una guarigione o una liberazione dai demòni, ma sia compiuto in occasione di un evento conviviale. 

La narrazione del miracolo a Cana dovrebbe portarci a riconsiderare il nostro rapporto, come credenti, con il mondo. Noi, come Gesù, non apparteniamo al mondo (Gv 17,16), ma il nostro atteggiamento verso di esso, con tutto ciò che lo caratterizza, compresa la nostra umanità, le nostre aspirazioni, la ricerca stessa del piacere, non può essere di puro diprezzo. 

Le Scritture condannano l'ubriachezza, ma non il consumo di vino (Sal 104,15; Prov 20,1; Ef 5,18). Ciò che è riprovevole è l'abuso, non l'uso. Il messaggio che ci comunica Gesù con questo primo miracolo è molto chiaro: l’uomo ha il pieno diritto di godere anche le gioie di questa vita. 

La felicità, il piacere, nelle loro diverse espressioni, come l’arte, il buon cibo, la sessualità, diventano un peccato solo quando vengono assolutizzati a discapito di altri aspetti altrettanto importanti della vita; quando rompono l’armonia con l'ordine delle cose stabilito da Dio, l'equilibrio con l’altrettanto necessaria coltivazione dei propri doveri, verso la famiglia, il prossimo, se stessi; quando vengono gettati in un meccanismo di produzione e consumo. 

Ponendo ogni cosa nella giusta gerarchia del regno di Dio, saremo liberi dalla schiavitù e regneremo con lui, fonte di ogni bene. Mentre cercheremo la sua gloria realizzeremo uno dei più alti scopi della nostra vita; perché Dio ci vuole felici, e vuole che la nostra gioia sia piena (Gv 15,11).

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 20 gennaio 2023

Fermati 1 minuto. Plasmati secondo la sua volontà

Lettura

Marco 3,13-19

13 Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. 14 Ne costituì Dodici che stessero con lui 15 e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demòni.
16 Costituì dunque i Dodici: Simone, al quale impose il nome di Pietro; 17 poi Giacomo di Zebedèo e Giovanni fratello di Giacomo, ai quali diede il nome di Boanèrghes, cioè figli del tuono; 18 e Andrea, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo di Alfeo, Taddeo, Simone il Cananèo 19 e Giuda Iscariota, quello che poi lo tradì.

Commento

Il monte è più volte associato nei vangeli a momenti e atti solenni della missione di Gesù (il "discorso della montagna" e la proclamazione delle beatitudini; la moltiplicazione dei pani e dei pesci; la trasfigurazione). 

La scelta dei dodici apostoli da parte di Gesù è esercitata con piena sovranità, e l'utilizzo del verbo greco ételen, che ci porta a tradurre il passo come "quelli che voleva", fa pensare a una scelta meditata. Gli uomini che sceglie sono persone comuni, pescatori, esattori delle tasse, sovversivi zeloti, peccatori riconciliati e anche colui che sarà il traditore. 

Secondo un esplicito atto della propria volontà Cristo forma un gruppo distinto di dodici uomini tra i suoi seguaci. Letteralmente Gesù "fa" i dodici, questo il significato del verbo greco epòiesen. La stessa espressione semitica è utilizzata nella Bibbia greca dei Settanta per indicare la scelta dei sacerdoti (1 Re 12,31; 13,33; 2 Cr 2,18). Quando Dio ci sceglie, il suo Spirito ci dona la capacità di diventare quello che la sua misericordia ha progettato; proprio come afferma il salmista: "Le tue mani mi hanno fatto e plasmato" (Sal 119,73). Eppure si tratta di un'azione di grazia che non fa violenza alla nostra volontà, non mortifica la nostra natura, né ci obbliga a diventare quello che egli vuole, come mostrerà la tragica vicenda di Giuda Iscariota. 

Il nuovo gruppo costituito da Gesù rappresenta le fondamenta della Chiesa. Insieme al compito principale di predicare, ai dodici è conferito il mandato di scacciare i demòni. 

Gli apostoli sono nominati in modo simile in tutti e tre i vangeli sinottici. Pietro è sempre nominato per primo; questo nome, che significa "roccia" sostituisce il nome originario Simone e descrive il suo carattere e la sua attività, che sarà quella di confermare i fratelli nella fede, come pietra fondativa nella costruzione della Chiesa. 

Gli apostoli vengono presentati in tre gruppi di quattro. Il primo gruppo di apostoli, Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni, tutti pescatori, è rappresentato nei vangeli particolarmente vicino a Gesù. Giacomo e Giovanni sono definiti "figli del tuono" (boanèrghes in aramaico) probabilmente in riferimento alla loro fervente personalità o alla loro predicazione apocalittica. 

Ogni apostolo presenta una specifica identità; è la tessera di un mosaico, la cui bellezza risplende in se stessa, ma ancor di più se guardata nell'insieme della composizione.

Preghiera

Concedici, Signore, di essere nella costruzione della Chiesa una piccola pietra intagliata secondo la tua volontà. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 19 gennaio 2023

Assidui e concordi nella preghiera. Commento al Salterio - Salmo 17,17-51

Lettura

Salmo 17,17-51

17 Stese la mano dall'alto e mi prese,
mi sollevò dalle grandi acque,
18 mi liberò da nemici potenti,
da coloro che mi odiavano
ed eran più forti di me.
19 Mi assalirono nel giorno di sventura,
ma il Signore fu mio sostegno;
20 mi portò al largo,
mi liberò perché mi vuol bene.
21 Il Signore mi tratta secondo la mia giustizia,
mi ripaga secondo l'innocenza delle mie mani;
22 perché ho custodito le vie del Signore,
non ho abbandonato empiamente il mio Dio.
23 I suoi giudizi mi stanno tutti davanti,
non ho respinto da me la sua legge;
24 ma integro sono stato con lui
e mi sono guardato dalla colpa.
25 Il Signore mi rende secondo la mia giustizia,
secondo l'innocenza delle mie mani davanti ai suoi occhi.
26 Con l'uomo buono tu sei buono
con l'uomo integro tu sei integro,
27 con l'uomo puro tu sei puro,
con il perverso tu sei astuto.
28 Perché tu salvi il popolo degli umili,
ma abbassi gli occhi dei superbi.
29 Tu, Signore, sei luce alla mia lampada;
il mio Dio rischiara le mie tenebre.
30 Con te mi lancerò contro le schiere,
con il mio Dio scavalcherò le mura.
31 La via di Dio è diritta,
la parola del Signore è provata al fuoco;
egli è scudo per chi in lui si rifugia.
32 Infatti, chi è Dio, se non il Signore?
O chi è rupe, se non il nostro Dio?
33 Il Dio che mi ha cinto di vigore
e ha reso integro il mio cammino;
34 mi ha dato agilità come di cerve,
sulle alture mi ha fatto stare saldo;
35 ha addestrato le mie mani alla battaglia,
le mie braccia a tender l'arco di bronzo.
36 Tu mi hai dato il tuo scudo di salvezza,
la tua destra mi ha sostenuto,
la tua bontà mi ha fatto crescere.
37 Hai spianato la via ai miei passi,
i miei piedi non hanno vacillato.
38 Ho inseguito i miei nemici e li ho raggiunti,
non sono tornato senza averli annientati.
39 Li ho colpiti e non si sono rialzati,
sono caduti sotto i miei piedi.
40 Tu mi hai cinto di forza per la guerra,
hai piegato sotto di me gli avversari.
41 Dei nemici mi hai mostrato le spalle,
hai disperso quanti mi odiavano.
42 Hanno gridato e nessuno li ha salvati,
al Signore, ma non ha risposto.
43 Come polvere al vento li ho dispersi,
calpestati come fango delle strade.
44 Mi hai scampato dal popolo in rivolta,
mi hai posto a capo delle nazioni.
Un popolo che non conoscevo mi ha servito;
45 all'udirmi, subito mi obbedivano,
stranieri cercavano il mio favore,
46 impallidivano uomini stranieri
e uscivano tremanti dai loro nascondigli.
47 Viva il Signore e benedetta la mia rupe,
sia esaltato il Dio della mia salvezza.
48 Dio, tu mi accordi la rivincita
e sottometti i popoli al mio giogo,
49 mi scampi dai nemici furenti,
dei miei avversari mi fai trionfare
e mi liberi dall'uomo violento.
50 Per questo, Signore, ti loderò tra i popoli
e canterò inni di gioia al tuo nome.
51 Egli concede al suo re grandi vittorie,
si mostra fedele al suo consacrato,
a Davide e alla sua discendenza per sempre.

Commento

Il Salmo 17 prosegue descrivendo l'intervento di Dio in difesa del suo consacrato. Le grandi acque (v. 17) sono  un'immagine frequente nei Salmi per esprimere una situazione di grave pericolo per l'uomo o per indicare i suoi nemici ("Scampami e salvami dalle grandi acque, dalla mano degli stranieri"; Sal 143,7). L'espressione evoca, nell'Antico Testamento, le acque della creazione, del diluvio e del Mar Rosso, sulle quali Dio ha esercitato il suo dominio regale. Nel Nuovo Testamento l'acqua è simbolo di vita, di fecondità e di grazia (cfr. Gv 4,14; 7,38).

Il lungo ringraziamento dal versetto 29 in avanti è scandito da immagini marziali. Il Signore è rappresentato come rupe (v. 32) e scudo (v. 36), simboli della sua solidità e fedeltà, su cui poggia la fede dell'uomo nella Bibbia. Anche Mosè nel suo cantico rappresenta Dio come una roccia (Dt 32,4).

I nemici vengono descritti con le caratteristiche della forza e della violenza del soldato in guerra. Di conseguenza anche il Signore, difensore del credente, viene rappresentato con queste stesse prerogative (vv. 30.38.40.41). L'immagine di Dio come "istruttore militare" (v. 35) è in linea con il pensiero religioso del mondo antico, anche se ripugna alla sensibilità moderna. Presso gli egiziani era il dio Seth a insegnare al faraone Tutmosi l'uso dell'arco, mentre il dio cananeo Baal era spesso rappresentato nell'arte sacra in veste militare. L'autore  del Salmo vuole esaltare la superiorità e la potenza di Dio (cfr. Is 45,21: "Fuori di me non c'è altro Dio; Dio giusto e salvatore non c'è fuori di me").

Il Salmo assume un carattere universalista e messianico (vv. 44-46), che nella tradizione della Chiesa è stato riferito a Cristo: la sua rivincita sulle forze avverse del mondo non si ferma alla risurrezione, ma si dilata nella prospettiva pasquale della conversione dei popoli, degli stranieri e della sua discendenza generata dal Padre.

La lettura del Salmo 17 deve saper cogliere i mutamenti di stile e di scene, catturando lo splendore delle immagini che costellano il testo, ma deve anche cogliere il suo insieme, dominato da due attori fondamentali: da un lato c'è il Signore, vero arbitro della storia e governatore del cosmo; dall'altro lato c'è il piccolo re ebreo, spesso circondato dai nemici e soggetto alle tempeste delle vicende umane, ma sicuro di avere una rocca protetta e stabile nel suo Dio e difensore, a cui egli si mantiene fedele.

- Rev. Dr. Luca Vona

Fermati 1 minuto. Lasciare spazio per comprendere

Lettura

Marco 3,7-12

7 Gesù intanto si ritirò presso il mare con i suoi discepoli e lo seguì molta folla dalla Galilea. 8 Dalla Giudea e da Gerusalemme e dall'Idumea e dalla Transgiordania e dalle parti di Tiro e Sidone una gran folla, sentendo ciò che faceva, si recò da lui. 9 Allora egli pregò i suoi discepoli che gli mettessero a disposizione una barca, a causa della folla, perché non lo schiacciassero. 10 Infatti ne aveva guariti molti, così che quanti avevano qualche male gli si gettavano addosso per toccarlo. 11 Gli spiriti immondi, quando lo vedevano, gli si gettavano ai piedi gridando: «Tu sei il Figlio di Dio!». 12 Ma egli li sgridava severamente perché non lo manifestassero.

Commento

Il ritirarsi di Gesù presso il lago di Gennesaret, che segna il confine con i territori pagani, indica la sua definitiva rottura con la sinagoga e l'apertura del suo messaggio a tutti i popoli. Le folle che lo seguono testimoniano la sua grande fama, nonostante l'ostilità dei farisei e degli erodiani. 

La folla è tale che rischia di schiacciare Gesù, le persone si gettano addosso a lui, come indica il verbo greco thlibo, il cui significato è stringere creando un senso di oppressione. Gesù "si difende" salendo su una barca. A volte anche chi ha fede costringe Dio dentro categorie che ne fanno quasi un "idolo", con una devozione che guarda solo alla ricerca del miracolo. 

Gesù ha pietà anche di queste folle di uomini "semplici" e afflitti. I mali da cui cercano la guarigione coloro che si gettano addosso a lui sono letteralmente "piaghe" (gr. mastigas), termine con il quale si indicavano diverse patologie, ma che può essere inteso anche con il significato di "correzione, castigo". Come le piaghe inviate agli egiziani e quelle descritte nel libro dell'Apocalisse, si tratta di mali inviati da Dio per sollecitare il ravvedimento. 

I demòni riconoscono l'identità di Gesù, ma pur temendola, non si sottomettono ad essa. Dio ci chiama a stabilire una relazione con lui, a crescere nella carità e non solo nella conoscenza intellettuale del suo mistero. Per quanto ricca possa essere la nostra cultura teologica non varrà a niente se l'ortoprassi non sarà all'altezza dell'ortodossia. 

Gesù riprende i demòni, intimandogli di non rivelare la sua identità; egli vuole essere accolto dagli uomini non per la testimonianza degli spiriti maligni ma per le proprie opere e per le proprie parole, che proclamano chiaramente chi egli è. Per questo ristabilisce una distanza dalle moltitudini; una distanza piena di sollecitudine, ma in grado di lasciare spazio a una considerazione più attenta e meditata, meno "istintiva", sulla sua persona.

Preghiera

Donaci, Signore, di cercarti con cuore puro; affinché possiamo accoglierti come colui che con le proprie piaghe è venuto a sanare le ferite prodotte in noi dal peccato. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 18 gennaio 2023

Fermati 1 minuto. Non un pugno chiuso ma una mano tesa

Lettura

Marco 3,1-6

1 Entrò di nuovo nella sinagoga. C'era un uomo che aveva una mano inaridita, 2 e lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato per poi accusarlo. 3 Egli disse all'uomo che aveva la mano inaridita: «Mettiti nel mezzo!». 4 Poi domandò loro: «È lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?». 5 Ma essi tacevano. E guardandoli tutt'intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori, disse a quell'uomo: «Stendi la mano!». La stese e la sua mano fu risanata. 6 E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire.

Commento

Gesù entra nella sinagoga di Cafarnao. Qui trova l'occasione per chiarire ulteriormente il senso del sabato, contro la polemica dei farisei appena avvenuta per le spighe strappate dai discepoli per sfamarsi. La sua predicazione avviene più con le opere che con le parole. Vi è un uomo con una mano paralizzata ed egli lo invita a mettersi nel centro della sala di culto. Quest'uomo è posto di fronte ai farisei quasi come simbolo della loro paralisi dottrinale e del legalismo cui hanno reso soggetto il popolo di Dio. 

I dottori della legge non hanno né pietà per il malato, né devozione per colui che può guarirlo, così anziché intercedere stanno a guardare, con occhio malevolo, per accusare Gesù di aver violato il riposo sabbatico. 

La domanda di Gesù se sia lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla (v. 4) non può che avere un'unica risposta per colui che è realmente guidato dalla pietà religiosa. Ma nessuno parla, e quel silenzio che spesso è complice dell'ingiustizia, suscita in Gesù indignazione e tristezza. In controluce c'è la durezza di cuore dei farisei (v. 5), il rigore della dottrina che anestetizza ogni emozione. 

Gesù guarisce l'uomo dalla mano inaridita con un comando semplice e diretto "Stendi la mano!"; e l'uomo "la stese e la sua mano fu risanata" (v. 5). Il Figlio di Dio, il Logos incarnato, la Parola e la Sapienza con cui il Padre ha creato il mondo, è parola che non ritorna mai a Dio senza effetto (Is 55,11). 

Le mani tenute legate dalla Legge, vengono sciolte per poter compiere il bene e coltivare il seme della grazia. I farisei - rappresentanti dell'ortodossia religiosa - e gli erodiani - difensori del potere statale - pur divisi in opposte fazioni, trovano un comune interesse nella volontà di far morire Gesù (v. 6), avvertito come un elemento di sovversione della loro "volontà di potenza" politica e religiosa.  

Ma il potere sovversivo di Gesù passa attraverso un "depotenziamento", una spoliazione del Figlio di Dio, fino alla morte di croce (Fil 2,8), in modo da aprire, lungo le vie oscure della nostra umanità sofferente, assunta su di sé, la via per la risurrezione.

Preghiera

Insegnaci, Signore, a non anteporre nulla a te; la nostra fede possa essere non un pugno chiuso per ferire, ma una mano aperta per ricevere la tua grazia e tesa per donare al nostro prossimo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 17 gennaio 2023

Fratel Biagio: la rivoluzione dei santi


La morte di Biagio Conte, a soli 59 anni, ha avuto una risonanza che va ben oltre la cerchia dei suoi collaboratori e sostenitori. La notizia è stata ripresa dai giornali nazionali che hanno parlato di lui, dando ampio spazio alla ricostruzione della sua storia. 

Il sindaco di Palermo, Roberto Lagalla, ha emanato un’ordinanza con cui ha indetto il lutto cittadino e le bandiere a mezz’asta. E il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, lo ha ricordato come «punto di riferimento, non soltanto a Palermo, per chi crede nei valori della solidarietà e della dignità della persona, che ha testimoniato concretamente, in maniera coinvolgente ed eroica». 

Un’eco così ampia non era scontata. In questa società dell’immagine, del prestigio sociale e del potere economico e politico, Biagio Conte non vantava nessuno di questi titoli. Non era un «influencer», non aveva nessuna carica, neppure ecclesiastica, non faceva parte della «casta». 

Da quando ha fatto le sue scelte di vita, ha voluto solo esser «fratel Biagio», un poveraccio col saio e un bastone, che ha girato a piedi per l’Italia e per l’Europa, spesso dormendo all’addiaccio, mangiando quello che per carità gli offrivano, senza fare discorsi memorabili, semplicemente vivendo la sua povertà come una testimonianza per un mondo ricco, che non vuole rinunziare a nulla e non intende condividere con i bisognosi quello che ha. 

La «Missione di Speranza e Carità» 

I giornali hanno parlato di lui come di un uomo che ha speso tutta la sua vita a favore degli ultimi. Ed è vero. A Palermo aveva creato la «Missione di Speranza e Carità», dove accoglieva incondizionatamente poveri, senzatetto, migranti, ex tossici, emarginati. Il progetto, nel corso degli anni, si è allargato con la costruzione, accanto alla «Missione di Speranza e Carità», di altre realtà: «Città della gioia», «La Cittadella del povero e della speranza» e «La Casa di Accoglienza femminile». 

Oggi le diverse sedi accolgono oltre mille persone a cui sono offerti tre pasti al giorno, assistenza medica e, all’occorrenza, vestiti puliti. Chiunque bussa alla porta riceve ascolto e aiuto da una rete di volontari che si è creata intorno al fondatore. 

Ma tutto questo non va scambiato per una semplice opera assistenziale. Sarebbe, ancora una volta, ridurre Biagio Conte alle nostre categorie efficentiste. E non renderebbe ragione di altri aspetti fondamentali della sua figura, che non era certo quella del manager – si può essere tali anche facendo assistenza –, ma si radicava in una vocazione squisitamente spirituale per la povertà, pressoché incomprensibile in un mondo dominato dalla logica del benessere e del consumismo. 

Una scelta di povertà 

In questo senso davvero la storia di «fratel Biagio» ha delle analogie con quella di Francesco d’Assisi. Come Francesco, anche lui proveniva da una ricca famiglia – non di mercanti, ma di costruttori edili –, che lo aveva spedito a studiare in Svizzera, presso un collegio privato. Poi era tornato a Palermo, per continuare gli studi sempre in una scuola privata, ma aveva lasciato gli studi a 16 anni, iniziando precocemente a lavorare nell’impresa della sua famiglia. 

Era ricco ma insoddisfatto. «Mi stordivo con auto di lusso, griffe, belle ragazze e vestivo solo di grigio o di nero, la mia vita non aveva colori», racconterà. Aveva cercato di sfogare la sua inquietudine puntando sull’arte. A 20 anni, decise di andare a vivere a Firenze inseguendo il sogno di diventare pittore o scultore. 

Gli ci vollero sette anni per capire che neanche questo poteva riempire il vuoto che sentiva dentro. Fin quando non scoprì che a colmarlo poteva essere solo Cristo. Da qui, la scelta radicale di spogliarsi di tutti i suoi averi, lasciare i genitori e le due sorelle minori, per abbracciare la vita da eremita nelle montagne dell’entroterra siciliano e, successivamente, facendo un viaggio interamente a piedi verso la città di Assisi. 

Nell’estate del 1991 ritornò a Palermo con l’idea di partire in missione in Africa ma, camminando per le vie della città, rimase colpito del profondo disagio sociale e dello stato di povertà di migliaia di suoi concittadini. Così decise di rimanere in Sicilia, per fare della sua scelta di povertà un dono a chi era povero senza averlo scelto. 

Ma il senso ultimo non è mai stato, come nelle analoghe istituzioni di “servizio sociale”, quello della pura e semplice integrazione dei bisognosi e degli emarginati nella società del benessere, bensì innanzitutto la testimonianza della condivisione e della fraternità. Non un rifiuto dello spirito della povertà, ma la consapevolezza che solo quando essa non è un destino che ci schiaccia essa può essere valorizzata nel suo autentico significato di libertà interiore dalle cose. 

Un rivoluzionario nella società e nella Chiesa 

È questa visione, drasticamente alternativa, che rende Biagio Conte un autentico rivoluzionario. Una rivoluzione spirituale, da cui però non è assente una dimensione politica. Che ha avuto le sue manifestazioni già nelle battaglie sostenute dal fondatore della «Missione di Speranza e Carità» per vincere la sordità e l’indifferenza delle istituzioni, anche a costo di prolungati scioperi della fame e proteste eclatanti. Ma soprattutto nell’additare un modello alternativo di società, dove i volti delle persone contino più del Prodotto Interno Lordo e dove la logica della solidarietà prevalga su quella della concorrenza. La rivoluzione di Biagio Conte comincia dall’anima e dai rapporti tra le persone. 

È una testimonianza su cui anche la Chiesa farebbe bene a interrogarsi. In un tempo in cui le chiese restano mezze vuote e si percepisce sempre di più l’irrilevanza della pastorale ordinaria nella formazione delle coscienze, Biagio Conte ha cercato di restituire attualità al messaggio cristiano con un forte richiamo al Vangelo, uscendo dai logori quadri di un ritualismo sempre più abitudinario e mostrando che cosa può significare realmente, per un credente, la scelta di Dio di venire a condividere la vicenda degli uomini. 

Di fronte a una struttura ecclesiastica che scricchiola sempre più vistosamente, i cristiani sono chiamati a reinterpretare in modo creativo le modalità della loro presenza nella società. L’esperienza di Biagio Conte può essere per questo una risorsa significativa. Lo ha sottolineato l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, quando è andato al capezzale dell’infermo pochi giorni prima della sua morte: «Siamo qui perché Biagio è colui che diventa la nostra stella, perché ci conduce all’essenziale e l’essenziale è questa via “altra” che dobbiamo imboccare». 

Non si tratta di imitare lo spogliamento di tutti i beni in cui si è concretizzata la scelta di «fratel Biagio», come non si è mai trattato di imitare le forme esteriori della vita di san Francesco. Ma ci sono dei cambiamenti di stile che sono diventati sempre più urgenti. Innanzi tutto per la Chiesa istituzionale: l’immagine del Vaticano, con le sue strutture burocratiche, i suoi intrighi, i suoi non sempre limpidi interessi economici, diventa sempre di più un ostacolo per la scelta di fede di molti, che ne restano scandalizzati. 

È chiaro che una grande comunità com’è quella ecclesiale non può fare a meno di un’organizzazione. Anche al tempo di Francesco d’Assisi la Chiesa ha sempre avuto il compito di conciliare la sua anima carismatica e profetica con quella istituzionale. Ma è sicuramente uno dei «segni dei tempi» di cui parlava il Concilio l’esigenza di ripensare questo equilibrio dando più ascolto alle voci, come quella di Biagio Conte, che la richiamano all’originaria esperienza evangelica. 

Sarebbe però un troppo facile alibi, per i credenti, scaricare tutto il problema sulle strutture ecclesiastiche. Urge una forte ripresa spirituale che restituisca ai cristiani – a cominciare dai laici e dalle laiche – il senso alternativo della loro vocazione e li renda consapevoli della loro missione «rivoluzionaria». 

L’irrilevanza del Vangelo nella nostra società non dipende certo soltanto dai vescovi e dai preti, ma dalla schizofrenia di tanti che si dicono cristiani ma pensano e operano ispirandosi a modelli culturali incompatibili con questo nome. La coerenza dei testimoni, nella sua radicalità, è un richiamo fortissimo a prenderne coscienza. 

Nell’ora della sua morte, Biagio Conte acquista più che mai il valore di un simbolo di tutto questo. Senza altra pretesa che quella di essere un «povero fratello» di tutti i poveri, egli ci indica una strada, difficile perché diversa da quelle a cui siamo abituati, ma che forse può aiutare anche noi – come aiutò lui – a colmare un vuoto a cui siamo troppo abituati. 

- Giuseppe Savagnone, SettimanaNews

Antonio il Grande e il combattimento spirituale nel deserto

L'itinerario spirituale di Antonio il Grande ci è noto attraverso il racconto della sua vita che ne fece Atanasio, vescovo di Alessandria, in Egitto. Si narra nella Vita che quando Antonio sentì proclamare in chiesa le parole rivolte dal Signore al giovane ricco: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi tutto quello che possiedi e dallo ai poveri; poi vieni, seguimi e avrai un tesoro nei cieli" (Mt 19,21), "come se la lettura fosse proprio per lui", subito si affrettò a metterlo in pratica. "Abbiamo le scritture e la libertà dataci dal Salvatore", amava ripetere (Vita di Antonio 26,4). Antonio non cerca altro che vivere il vangelo nella libertà da qualsiasi compromesso con la mondanità, nella libertà dalle passioni, frutto di una dura lotta interiore.
Se nei primi passi della vita monastica si fa guidare da un anziano monaco nei pressi del suo villaggio, poi si inoltra nel deserto dove è raggiunto da numerosi discepoli; la fama della sua sapienza spirituale, della sua mitezza, del suo discernimento varca i confini dell'Egitto: i filosofi pagani lo vogliono incontrare per discutere con lui, l'imperatore gli scrive. Assediato dalle folle che gli chiedono un consiglio, una parola di consolazione, di incoraggiamento, Antonio, ormai anziano, pacificato e operatore di pace, si ritira sul monte Qolzum, dove tuttora vi è un monastero a lui dedicato. Attraverso la biografia scritta da Atanasio, definita da Gregorio di Nazianzo, "regola di vita monastica sotto forma di racconto" (Discorso 21,5), Antonio diventa padre dei monaci sia d'oriente che d'occidente.

Tracce di lettura

Disse abba Antonio ad abba Poemen: «Questo è il grande lavoro dell'uomo: gettare su di sé il proprio peccato davanti a Dio e attendersi la tentazione fino all'ultimo respiro».

Disse ancora: «Dal prossimo ci vengono la vita e la morte. Perché se guadagniamo il fratello guadagniamo Dio, ma se scandalizziamo il fratello pecchiamo contro Cristo».

Disse ancora: «Chi dimora nel deserto e cerca la pace è liberato da tre guerre: quella dell'udito, quella della lingua e quella degli occhi. Gliene resta una sola: quella del cuore».

Disse abba Antonio: «Verrà un tempo in cui gli uomini impazziranno, e, quando vedranno uno che non è pazzo, lo assaliranno dicendogli: "Sei pazzo!" per il solo fatto che non è come loro».

Tre padri avevano l'abitudine di recarsi ogni anno dal beato Antonio. Due di loro lo interrogavano sui pensieri e sulla salvezza dell'anima; uno, invece, taceva sempre e non chiedeva nulla. Dopo molto tempo abba Antonio gli disse: «Da tanto tempo vieni qui e non mi chiedi niente!». E quello gli rispose: «Mi basta vederti, padre!».

(Detti dei padri, Serie alfabetica, Antonio 4.9.11.25.27)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. L'uomo, prima del precetto

Lettura

Marco 2,23-28

23 In giorno di sabato Gesù passava per i campi di grano, e i discepoli, camminando, cominciarono a strappare le spighe. 24 I farisei gli dissero: «Vedi, perché essi fanno di sabato quel che non è permesso?». 25 Ma egli rispose loro: «Non avete mai letto che cosa fece Davide quando si trovò nel bisogno ed ebbe fame, lui e i suoi compagni? 26 Come entrò nella casa di Dio, sotto il sommo sacerdote Abiatàr, e mangiò i pani dell'offerta, che soltanto ai sacerdoti è lecito mangiare, e ne diede anche ai suoi compagni?». 27 E diceva loro: «Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato! 28 Perciò il Figlio dell'uomo è signore anche del sabato».

Commento

Secondo i rabbini quello del riposo del sabato, in onore del giorno in cui Dio si riposò dopo l'opera della creazione (Gen 2,3), è il comandamento più importante: osservarlo correttamente significa compiere tutta la legge. Di conseguenza la violazione del sabato viene considerata alla stregua dei peccati peggiori (idolatria, incesto, omicidio). 

Il semplice comandamento contentuto nel libro dell'Esodo (Es 34,21) e nel Deuteronomio (Dt 5,12-15) è stato esteso dai maestri ebrei fino a includere trentanove tipi di lavori proibiti, a loro volta suddivisi in trentanove classi, per un totale di 1521 lavori proibiti. L'opposizione di Gesù è contro questi eccessi della legislazione sabbatica, contro le "dottrine che sono precetti di uomini" (Mt 15,9). 

Contrariamente a quanto rimproverato dai farisei, ai viaggiatori che non avevano abbastanza cibo era consentito cibarsi raccogliendo le spighe per strada (Dt 23,24-25). L'opposizione dei farisei è, dunque, non solo maliziosa, ma anche ingiustificata. 

L'episodio di Davide che con i suoi compagni mangiò i pani dell'offerta è ripreso dal primo libro di Samuele (1 Sam 21,2-7) e non riguarda la violazione del riposo sabbatico, ma viene qui inserito per dimostrare che la violazione della legge è possibile in quanto gli uomini di Davide, in fuga da Saul, erano senza cibo. I pani dell'offerta erano i dodici pani presentati al Signore nel tempio, sostituiti ogni sabato (Lv 24,5-9) e che potevano essere mangiati solo dai sacerdoti. 

La legge del sabato, stabilita da Dio per il riposo del corpo, non può andare contro le necessità del corpo, nostre o del prossimo. Ecco perché Gesù compie molte guarigioni anche in giorno di sabato. Egli riafferma l'intenzione divina del sabato, giorno di riposo "fatto per l'uomo" (v. 27), come beneficio verso Israele, in contrapposizione alla tradizione restrittiva dei farisei nell'interpretare la legge. 

L'uomo non è stato fatto per il sabato ma per onorare e servire Dio. Il significato del commento finale, "il Figlio dell'uomo è signore anche del sabato" (v. 29) è che la violazione del sabato è giustificata in forza dell'autorità stessa di Gesù, che ripristina l'autentica legge di Dio, respingendo le tradizioni umane che rendono schiavo l'uomo e ristabilendo il sabato come giorno di benedizione. 

Le restrizioni del sabato vengono meno con la giustificazione operata da Cristo nella sua morte e risurrezione, così che il giorno del Signore, spostato dai cristiani alla domenica, diventerà il giorno in cui celebrare il suo sacrificio di salvezza e rendere a lui onore. Il vangelo della grazia ci libera dal timore della Legge per servire Dio con amore, in risposta alla sollecitudine che egli ha mostrato per noi, nel crearci, custodirci e redimerci nel suo Figlio. 

Questo il senso dei "comandamenti": una guida per insegnarci ad amare Dio, non sotto il giogo degli schiavi, ma con responsabilità e sapendo guardare l'uomo e i suoi bisogni prima di ogni precetto.

Preghiera

Signore Dio, che ci hai liberati dalla schiavitù del peccato, insegnaci ad amarti mostrandoci solleciti verso le necessità del nostro prossimo; affinché possiamo giungere al riposo senza fine del tuo sabato eterno. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 16 gennaio 2023

Fermati 1 minuto. Digiunare durante le nozze?

Lettura

Marco 2,18-22

18 Ora i discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno. Si recarono allora da Gesù e gli dissero: «Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?». 19 Gesù disse loro: «Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Finché hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. 20 Ma verranno i giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno. 21 Nessuno cuce una toppa di panno grezzo su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo nuovo squarcia il vecchio e si forma uno strappo peggiore. 22 E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri e si perdono vino e otri, ma vino nuovo in otri nuovi».

Commento

I discepoli di Giovanni, probabilmente, come i farisei osservavano la pratica in uso ai tempi di Gesù di digiunare due volte a settimana (Lc 18,12); in realtà la legge levitica prevedeva un solo digiuno l'anno nel giorno dell'espiazione (Lv 16,29.31). 

L'immagine del banchetto nuziale - nettamente in contrasto con la pratica del digiuno - esprime un nuovo rapporto d'amore tra Dio e il suo popolo nella persona e nella missione terrena di Gesù. Gli invitati a nozze (v. 19) sono qui letteralmente "i figli del talamo", semitismo per indicare gli amici che accompagnano e aiutano lo sposo nei preparativi e nella cerimonia. 

Nell'Antico Testamento l'immagine di Dio come sposo è presente nel libro di Isaia (Is 1,21-23; 49,14-16), mentre nella letteratura patristica abbondano le interpretazioni allegoriche del Cantico dei cantici, considerato come dialogo tra Dio e la Chiesa, sua sposa. 

Il verbo greco apairomai, in riferimento allo sposo che sarà tolto agli invitati a nozze (v. 20), significa letteralmente "strappare", e preannuncia la fine violenta di Gesù.

La presenza del Messia è un evento così gioioso che non lascia spazio per il digiuno; ma nel tempo della Chiesa ci sarà spazio anche per questo. Gesù offre nel "discorso della montagna" (Mt 5-7) una spiegazione su come dovranno digiunare i suoi discepoli: con discrezione, senza apparire sfigurati in volto, profumandosi il capo, affinché possano essere ricompensati solo dal Padre che vede nel segreto (Mt 6,16-18). 

Gesù non disdegna gli inviti alla ricca tavola dei pubblicani e dei peccatori, è infatti per loro che è venuto come medico (Mc 2,15-17); tuttavia, l'episodio della spigolatura (Mc 2,23) e la modalità con cui invia i suoi discepoli a predicare "senza bisaccia" (Lc 10,4) dimostrano l'assunzione di un regime alimentare povero e fiducioso nella provvidenza divina. 

Gesù raccomanda il digiuno anche per scacciare gli spiriti malvagi più "resistenti" alla preghiera e agli esorcismi: "Questa specie di demòni non si può scacciare in alcun modo se non con il digiuno e la preghiera" (Mc 9,29). 

Il digiuno è ormai un "tabù" nelle chiese occidentali, tanto in quella cattolica e ancor più in quelle protestanti. In queste ultime viene generalmente rigettato per il suo - reale - rischio di essere concepito come pratica per "accumulare meriti" e contraria al vangelo della grazia. Tuttavia, non mancano eccezioni: il Book of Common Prayer anglicano prescrive numerosi giorni di digiuno, mentre John Wesley, fondatore del metodismo, digiunava tutti i mercoledi e venerdi dell'anno. 

Al di là delle prescrizioni, è venuta meno la pratica diffusa del digiuno, che potrebbe avere una importante valenza pedagogica. Si tratta di riscoprire la sua capacità di farci comprendere che non si può avere tutto e subito, educandoci alle rinunce che la vita, in differenti modi e tante volte, ci chiede.

Ma il vero digiuno è soprattutto condividere il pane con l'affamato, soccorrere l'orfano e la vedova, dare il proprio contributo affinché la giustizia sia ristabilita sulla terra.

Preghiera

Si compiano, Signore, le tue nozze con la Chiesa, tua sposa; affinché possiamo gioire nel banchetto celeste, quando non ci sarà più fame e tu stesso sarai la sorgente della vita. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona