Liturgia della IV DOMENICA DOPO l’epifania
Colletta
O Dio,
che sai che ci troviamo in mezzo a molti e grandi pericoli e che per la
fragilità della nostra natura umana non possiamo neanche reggerci in piedi;
concedici forza e protezione, per trovare supporto in ogni avversità e superare
ogni tentazione. Amen.
Letture:
Rm 13,1-7; Mt 8,1-17
Prosegue nel ciclo liturgico anglicano la serie
delle domeniche denominate “dopo l’Epifania”. Alcune chiese occidentali, tra
cui quella cattolica romana, introducendo alcune modifiche nella seconda metà
del ventesimo secolo, hanno ridefinito questo periodo “Tempo ordinario”,
cambiando anche il lezionario; per tale motivo le letture della liturgia non
coincidono più tra loro tra le diverse chiese occidentali. Troviamo, però, un
certo “sentire comune”. Nelle scorse quattro settimane abbiamo ascoltato le
letture sulle quattro grandi manifestazioni di Gesù come Dio e Redentore
dell’umanità: la nascita a Betlemme, l’adorazione da parte dei Magi, il
battesimo al Giordano, la trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana.
Con la lettura di oggi entriamo in una dimensione un po’ più “quotidiana” e
“ordinaria”, dentro la quale irrompe la straordinarietà del Figlio di Dio, con
la sua predicazione e con diversi miracoli di guarigione e liberazione. Si
tratta di parole e gesti spesso sovversivi nei confronti di alcune prassi della
religiosità giudaica; a cominciare proprio dai due miracoli narrati nel Vangelo
di oggi: la guarigione del lebbroso e la guarigione, a distanza, del servo del
centurione.
Le due narrazioni si collocano subito dopo il
lungo discorso sul monte, ai capitoli 6 e 7 del Vangelo di Matteo; discorso che
dovrebbe costituire lo regola di vita di ogni cristiano. E sottolineo di ogni
cristiano, non dei preti, dei consacrati o dei monaci, ma di ogni cristiano che
voglia vivere seriamente la propria fede nella vita di ogni giorno. Quanto poi
sia possibile mettere in pratica, con le sole proprie forze, quella regola di
vita, è un altro discorso, che merita un approfondimento a sé. Dopo questo
lungo sermone, dunque, Gesù scende dalla montagna e comincia subito a mettere
in pratica quanto ha predicato. La prima persona in cui si imbatte è un
lebbroso; la religiosità giudaica, attenendosi al libro del Levitico, considerava
i lebbrosi impuri, e impuro diventava chiunque avesse avuto un contatto fisico
con loro. Quest’uomo vive, dunque, non solo uno stato di profonda sofferenza
fisica, ma anche morale, determinata dalla solitudine e dall’emarginazione, che
spesso anche oggi caratterizzano lo status
del malato. Ma il lebbroso è convinto che Gesù possa guarirlo. La sua fede
rappresenta la risposta dell’uomo sofferente alla predicazione di Gesù. La
fede, spesso definita un “dono”, che il Signore elargirebbe capricciosamente a
chi più a chi meno e a chi niente, diventa invece qui la risposta attiva
dell’uomo alla Parola di Dio. Il dono è la parola di Dio. La fede è ciò con cui
siamo chiamati a rispondere a questo dono. Gesù, di fronte alla fede del
lebbroso, che lo riconosce come Signore, adorandolo, e afferma “se vuoi, tu
puoi mondarmi” contravviene apertamente alle regole della propria religione; davanti
alle “grandi folle” che lo hanno seguito, “distesa la mano” (in segno di
benedizione) “lo toccò”. E in quell’istante egli fu guarito. Ecco un’altra
Epifania della potenza di Dio, nel quotidiano, nel tempo “ordinario”; Gesù
viene riconosciuto come Signore e ci manifesta la natura profonda di Dio: un
Dio che non ha timore di toccare con mano la nostra miseria, ma che la
raggiunge e la sana con la sua benedizione, con la sua grazia. Così dovremmo agire
anche noi con gli altri uomini, senza paura di “sporcarci le mani” per
annunciare il Vangelo. Non siamo chiamati a formare “combriccole” di bigotti,
ma a raggiungere e lasciarci raggiungere da ogni essere che condivide la nostra
natura umana, ferita dal peccato e da mille infermità.
La conferma arriva anche dall’episodio
immediatamente successivo, dove un centurione romano, considerato dai giudei un
impuro perché pagano, e un nemico perché rappresentante del potere politico e
militare che opprimeva la loro nazione, si presenta a Gesù per chiedere la
guarigione di un servo che “giace in casa paralizzato e soffre grandemente”. La
risposta di Gesù è ancora una volta sovversiva: “Io verrò e lo guarirò”. Gesù
propone di andare a casa stessa del centurione, una azione “scandalosa”, perché
contravveniva alle norme religiose che prevedevano il divieto di entrare in
casa di un pagano, per di più nemico della nazione. Ma non poteva agire
diversamente colui che aveva appena predicato l’amore per i propri nemici e che
aveva detto: “Qual è l'uomo tra di voi, il quale, se il figlio gli chiede un
pane, gli dia una pietra? Oppure se gli chiede un pesce, gli dia un serpente? Se
dunque voi, che siete malvagi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto
più il Padre vostro, che è nei cieli, darà cose buone a quelli che gliele
domandano!” (Mt 7,9-11). Un altro raggio della rivelazione evangelica squarcia
le nubi del timore per l’impurità rituale, manifestando il mistero della
paternità universale di Dio; questa, si allarga oltre i confini del popolo
eletto, all’intero genere umano, immerso, come ci ricorda la colletta di oggi,
“in molti e grandi pericoli”, alla ricerca di “forza, protezione e supporto in
ogni avversità e tentazione”.
Il centurione è pienamente consapevole di questo
stato di miseria e fragilità che caratterizza la condizione umana, e lo attesta
con le parole che ripetiamo ogni volta prima della comunione eucaristica
“Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto”. E la sua risposta
di fede nei confronti della Parola di Dio è altrettanto grande: “di’ soltanto
una parola, e il mio servo sarà guarito”. E così avverrà.
È la Parola di Dio che guarisce, quella parola che
la Lettera agli Ebrei (Eb 4,12) definisce “vivente ed efficace, più affilata di
qualunque spada a due tagli”, capace di penetrare “fino alla divisione
dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla”; quella parola con
cui Dio ha creato il mondo e guidato il suo popolo attraverso il deserto e
nella terra dell’esilio.
Dopo secoli in cui il popolo è stato tenuto
lontano dalla Bibbia, anche oggi, che disponiamo di eccellenti traduzioni in
ogni lingua, l’analfabetismo biblico è fortemente diffuso. Manca, persino tra i
protestanti a volte, l’abitudine a confrontari abitualmente con la Parola di
Dio, ad ascoltare cosa il Signore ha da dirci riguardo i nostri problemi, le
nostre paure, i nostri dubbi. Altre volte manca una risposta di fede forte alla
Parola, la fiducia nella sua efficacia, nella sua capacità di trasformare
realmente la nostra vita.
Impegnamoci a riscoprire la lettura delle Sacre
Scritture; non lasciamo la Bibbia a raccogliere polvere in uno scaffale.
Ascoltiamola, meditiamola, confrontiamoci con essa nelle cose ordinarie e
straordinarie di ogni giorno. La nostra vita personale, ma anche quella
collettiva, gli avvenimenti politici, la sottomissione all’autorità, cui ci
chiama San Paolo nella lettura di oggi, invitandoci a essere buoni cittadini,
devono avvenire mediante l’esercizio di un senso critico, alla luce della
Parola di Dio. Allora potranno essere sanate le nostre ferite, individuali e
collettive. Dice infatti il Signore, per bocca del profeta Isaia (Is 55,10-11):
“Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere
annaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, in modo da
dare il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà la mia parola, uscita
dalla mia bocca: essa non ritornerà a me a vuoto, senza avere compiuto ciò che
desidero e realizzato pienamente ciò per cui l'ho mandata”. E così sia.
Rev. Luca Vona
Missione Anglicana Tradizionalista Carlo I Stuart
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