Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

lunedì 18 agosto 2025

Fermati 1 minuto. L'illusione della ricchezza

Lettura

Matteo 19,16-22

16 Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». 17 Egli rispose: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti». 18 Ed egli chiese: «Quali?». Gesù rispose: «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, 19 onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso». 20 Il giovane gli disse: «Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?». 21 Gli disse Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi». 22 Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze.

Commento

Nel passo parallelo del vangelo di Luca (Lc 18,18-23) il giovane di questa parabola è definito "uno dei capi". Si trattava probabilmente, di uno dei capi della sinagoga e, dunque, di un uomo molto ricco. Marco, invece, ci informa che il giovane "corse" da Gesù e "si inginocchiò davanti a lui" (Mc 10,17), a indicare il suo sincero e ardente desiderio di incontrarlo. Sia Marco che Luca riferiscono che nel suo preambolo il giovane chiama Gesù "maestro buono". 

Se in altri passi evangelici vediamo che molti sacerdoti e dottori della legge, avvicinano Gesù per metterlo alla prova e cercare di coglierlo in fallo, in questo caso c'è un autentico desiderio del giovane di sapere cosa deve fare di buono per ottenere la vita eterna. Egli è invitato da Gesù a osservare i comandamenti e, tra questi, sono elencati i cinque che costituivano la seconda tavola della legge, relativi al rispetto e all'amore del prossimo. Probabilmente perché come sacerdote levitico questo capo della sinagoga poteva più facilmente illudersi di osservare quelli relativi all'amore di Dio, come anche noi, d'altra parte possiamo credere di amare Dio per qualche buon sentimento nei suoi confronti e le azioni di culto che gli rendiamo. Più difficile è illudersi sull'amore del prossimo nel momento in cui lo defraudiamo dai suoi beni o desideriamo ciò che gli appartiene. 

Il giovane crede avventatamente di aver rispettato "tutte queste cose", ma non si rende conto della profondità spirituale della legge. Come proclamato da Gesù nel Discorso sul monte, anche solo gli atteggiamenti interiori disordinati costituiscono una violazione della legge: "fu detto agli antichi: Non uccidere... ma io vidico chiunque si adira con il proprio fratello sarà sottoposto a giudizio" (Mt 5,21-22); "fu detto: Non commettere adulterio... ma chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5,27-28). 

Il giovane che interpella Gesù non comprende che la nuova giustizia è superiore all'antica e che davvero nessuno, di fronte ad essa può essere detto "buono" se non Dio e il suo "figlio prediletto". Crede di potersi salvare con le proprie opere e per questo chiede a Gesù cosa gli manca ancora per raggiungere la perfezione, presumento di poter compiere un'opera ancora più grande. Ma la perfezione cristiana, consiste in un distacco interiore da ogni ricchezza. A questa perfezione noi tutti siamo chiamati e non solo le persone che svolgono qualche ministero ecclesiastico.

Relegare la chiamata a una totale consacrazione di sé e dei propri beni al Signore a pastori o preti, frati, suore e monache non ha alcun senso cristiano. Il Vangelo è l'unica regola di vita per ogni battezzato e invita tutti a lasciare i molteplici idoli che questo mondo ci mette davanti.

Donare le nostre ricchezze ai poveri significa coltivare un totale distacco del cuore delle cose materiali e persino da quelle spirituali. A cosa gioverebbe infatti dare tutti i nostri beni ai poveri se poi diventiamo preda della vanagloria e ci convinciamo di esserci salvati, non per la grazia che opera in noi e attraverso di noi, ma illudendoci di aver meritato una ricompensa compiendo qualcosa di buono? 

Beati coloro che hanno uno spirito "povero", distaccato, "perché di essi è il regno dei cieli" (Mt 5,3). Ma il giovane ricco non lo comprese e come venne a Gesù correndo, pieno di gioia, così se ne andò, rattristato. Vogliamo andarcene anche noi? (Gv 6,67)

Preghiera

Signore Gesù Cristo, che hai rinunciato alla tua stessa uguaglianza con Dio per abbassarti fino a noi e guadagnarci la savezza; concedici di rinunciare con gioia a ciò che ci fa sentire ricchi, per poter entrare nel tuo regno. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Filosseno di Mabbug. La deificazione dell'uomo per mezzo dell'amore

Nel 523 a Filippopoli, in Tracia, termina la sua parabola terrena Filosseno, metropolita di Mabbūg in Siria. Aksenaya, questo il suo originario nome siriaco, era nato attorno alla metà del V secolo a Tahal, in Persia. Frequentata la scuola di Edessa in un periodo di grandi controversie cristologiche e di forti instabilità politiche, il giovane studioso rivelò presto tutte le sue qualità di uomo di azione e di pastore attraverso un'eloquenza e una fecondità letteraria fuori del comune.
Mosso dall'incessante desiderio di conservare intatto il cuore del cristianesimo, che per lui consiste nel fatto che Dio è diventato uomo perché l'uomo diventi Dio, Filosseno scrisse per tutta la vita opere esegetiche, dogmatiche e spirituali a sostegno della sua visione e per convincere i fedeli della diocesi di Edessa, di cui fu fatto vescovo nel 485, e quanti guardavano a lui come a un maestro, a condurre una vita di assimilazione al Cristo sofferente e umiliato attraverso l'acquisizione dell'amore; solo così, egli riteneva, il credente avrebbe potuto prendere parte allo «scambio» fra Dio e l'uomo, offerto dal Cristo salvatore. Perseguitato a più riprese dagli imperatori e dai patriarchi antimonofisiti, Filosseno finì la vita in esilio. È considerato uno dei più grandi dottori della chiesa giacobita.

Tracce di lettura

Ognuno si raffigura Dio a seconda di come vede se stesso. Se è al grado dei peccatori, vede Dio come giudice. Se è salito al secondo grado, quello dei penitenti, Dio si mostra a lui con il perdono. Se è al grado dei misericordiosi, scopre l'abbondanza della misericordia di Dio. Se ha rivestito dolcezza e mansuetudine, gli apparirà la benevolenza di Dio. Se ha acquisito un'intelligenza sapiente, contemplerà l'incomprensibile ricchezza della sapienza divina. Se ha rinunciato alla collera e al furore, se la pace e la calma regnano in lui in ogni momento, è elevato all'inconfondibile purezza di Dio. Se la fede risplende incessantemente nella sua anima, egli guarda in ogni istante l'incomprensibilità delle opere di Dio, e ha la certezza che anche quelle ritenute spiegabili sono al di sopra di qualsiasi spiegazione. Se sale poi al livello dell'amore, giunto in cima a ogni grado vede che Dio non è altro che amore.
Tu lo vedrai come egli è, quando sarai divenuto come lui.
(Filosseno di Mabbūg, Omelie 6)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Innario siriaco

domenica 17 agosto 2025

Dio si affretta per venirci incontro

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA NONA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

Concedici, Signore, ti supplichiamo, di pensare e compiere sempre ciò che è giusto; affinché noi, che non possiamo fare nulla di buono senza di te, possiamo essere capaci, per la tua grazia, di vivere secondo la tua volontà; per Gesù Cristo, nostro signore. Amen.

Letture

1 Cor 10,1-13; Lc 15,11-32

Commento

Nel pensiero comune, Dio deve essere buono con i buoni e deve castigare gli empi. Questo pensiero è ben ravvisabile nella letteratura veterotestamentaria, dove compare, però, nel tempo, l’immagine di un Dio che è certamente giusto, ma anche misericordioso, “lento all’ira e grande nell’amore” (Sal 102,8), che non desidera la morte del peccatore, “ma che si converta e viva” (Ez 33,11).

L’atto compiuto dal figlio protagonista di questa parabola è molto grave: nella società giudaica del tempo, chiedere al padre l’eredità in anticipo significava determinare una rottura irreversibile con lui, considerandolo come morto. Un figlio del genere non avrebbe più potuto sperare nell’aiuto del padre in caso di necessità. Se la richiesta anticipata dell’eredità rendeva il padre come morto per il figlio, al contempo il figlio diveniva come morto per il padre. Gesù, attraverso questo racconto, ci vuole mostrare che il padre che è nei cieli agisce in maniera del tutto differente.

Il figlio che ha chiesto la sua parte di eredità si avvia verso un paese lontano e qui spende tutto quello che ha, riducendosi a pascolare i porci – lui che in casa del padre viveva da signore – e arrivando a desiderare di nutrirsi di  carrube quando in quel paese sopraggiunge una grave carestia.

Sono proprio i morsi della fame a precedere ciò che il Vangelo definisce un “rientrare in sé” del giovane, una conversione che è in un primo momento un atto di introspezione, suscitato dalla frustrazione di un desiderio elementare: “Quanti lavoratori di mio padre hanno pane in abbondanza… io invece muoio di fame!” (Lc 15,17). Non è il senso di colpa a suscitare i primi moti della conversione, ma la fame.

A questo punto il giovane medita di tornare a casa del padre e si prepara un bel discorso di pentimento. Il Vangelo insiste sul verbo “levarsi, sollevarsi”: “mi leverò e andrò da mio padre, e gli dirò…”; “Egli dunque si levò…”. La fame e il desiderio di “sollevarci”, suscitati dallo Spirito stesso di Dio, sono il motore della nostra conversione.

Nel prosieguo della parabola vediamo che il discorso di pentimento che il figlio si è preparato risulta del tutto superfluo. Infatti, “mentre era ancora lontano” suo padre “lo vide e ne ebbe compassione, corse, gli si getto al collo e lo baciò” (Lc 15,20). Laddove ci aspetteremmo di trovare un padre severo che attende il figlio alla porta, per respingerlo o quanto meno per redarguirlo e chiedergli di umiliarsi per ottenere il perdono, Gesù ci offre l’immagine di un Dio che ci corre incontro, ci anticipa, si affretta, e ci si getta al collo baciandoci, mentre siamo ancora sporchi di letame. 

Quando il giovane dice “non sono più degno di essere chiamato tuo figlio” (Lc 15,21), proprio in quel momento il padre, davanti a tutti i servi, vuole dimostrare di averlo ristabilito in ogni sua dignità. Chiede che venga rivestito dell’abito più bello, che gli vengano messi i sandali ai piedi e infine che gli si infili l’anello al dito, simbolo del potere riacquistato. E a scanso di equivoci lo dichiara ad alta voce, davanti a tutti i servi: “…questo mio figlio era morto ed è tornato in vita” (Lc 15,24).

Ma c’è una forza dentro di noi, e fuori di noi, che non comprende la misericordia di Dio, la sua compassione; e dunque si adira, giudica e condanna; ci induce inoltre a pensare che la salvezza sia un qualcosa che può essere comprato, meritato, guadagnato. La salvezza può essere desiderata nel momento in cui apriamo gli occhi e prendiamo consapevolezza di quanto penosa sia l’esistenza condotta lontano da Dio, del fatto che siamo nati non per mangiare carrube, ma per sedere alla mensa del Padre. 

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 14 agosto 2025

Fermati 1 minuto. La gioia di essere salvati

Lettura

Matteo 18,21-19,1

18,21 Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». 22 E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette.
23 A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. 24 Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. 25 Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. 26 Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. 27 Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito. 28 Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi! 29 Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito. 30 Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito.
31 Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l'accaduto. 32 Allora il padrone fece chiamare quell'uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. 33 Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? 34 E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. 35 Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello».
19,1 Terminati questi discorsi, Gesù partì dalla Galilea e andò nel territorio della Giudea, al di là del Giordano.

Commento

In contrapposizione con il comandamento della Genesi «Sette volte sarà vendicato Caino ma Lamech settantasette» (Gen 4,24), volto a contenere il dilagare della violenza, gli ordinamenti di Gesù per i suoi discepoli prevedono una disponibilità illimitata a perdonare il fratello che si pente dei propri peccati. Questo il senso del numero espresso da Gesù: "settana volte sette". 

La parabola presentata nel Vangelo di Matteo risponde esaurientemente alla domanda di Pietro, mostrando la ragione per cui si deve essere sempre disposti al perdono. Dio ci ha condonato per primo ogni debito e poiché noi non abbiamo dal nostro prossimo un diritto al risarcimento superiore a quello che Dio ha nei nostri confronti, ne consegue che siamo chiamati a imitarlo nella sua bontà infinita, condonando a nostra volta tutti i debiti a chi ne fa ammenda.

Dall'entità del patrimonio amministrato dal servo della parabola si comprende che egli è un  ministro di Stato. Si consideri che il valore di un talento, che poteva esere d'oro, d'argento o di bronzo, era molto elevato (seimila denari per un talento d'argento e trenta volte di più per un talento d'oro). La cifra di diecimila talenti è dunque enorme. Il servitore disonesto, che aveva contratto un tale debito, non può sottrarsi allla richiesta di rendiconto del re, proprio come alla nostra coscienza è impossibile sottrarsi al giudizio di Dio. 

Secondo la legge levitica un debitore che non avesse potuto restituire il maltolto poteva essere venduto come schiavo dal creditore e così anche i suoi figli. Gli schiavi potevano poi essere liberati, e quindi veder condonati i propri debiti, nell'anno del Giubileo, che avveniva "ogni sette settimane di anni", ovvero ogni quarantanove anni. La parabola riferisce che il re chiede di vendere il debitore, la moglie e i figli finché questi non abbia saldato il suo debito. L'immagine è dunque quella di un despota orientale che attua una legge più rigorosa di quella giudaica.

Il debitore non contesta la sentenza del re, di fronte alla propria coscienza la trova giusta, per questo si getta a terra supplicando la sua misericordia. La prima reazione del servo disonesto è di fare al re una promessa temeraria, pur di aver salva la vita: «abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa» (v. 26). Certamente non avrebbe potuto adempiere a una promessa simile. Ma la risposta del re supera ogni aspettativa ed egli rimette al servo ogni debito, lasciandolo andare. 

Dio non si fa convincere a usare misericordia dai nostri buoni propositi, non ci tratta secondo i nostri meriti; conosce la nostra miseria e offre da subito ciò di cui abbiamo bisogno: il suo perdono. Ci chiede solo di accogliere questo perdono con riconoscenza. Questo implica esercitare a nostra volta la remissione dei peccati verso i nostri debitori, farci immagine della sua misericordia. Ma nel servo della parabola il timore non lascia spazio all'amore. Mosso unicamente dalla paura di essere punito egli non è riuscito a comprendere la portata della grazia, il suo cuore ha accolto il perdono di Dio con superficialità, senza permettere al vangelo di trasformarlo. Per questo, passato il momento di gratitudine verso il re egli ricade nel mondo e nella sua ottica di inflessibile giustizia, comportandosi da aguzzino verso chi gli doveva restituire una somma irrisoria (cento denari).

Se il cuore del debitore si fosse davvero aperto alla misericordia Dio, questa si sarebbe riversata fino all'esterno e la gioia di essere salvato avrebbe sostenuto in lui un animo generoso (Sal 50,14). Gli amici del conservo, che vanno a riferire tutto al re, dovrebbero farci riflettere sulla moltitudine di preghiere che giungono a Dio da coloro che si vedono negata la misericordia dai loro oppressori.

La conclusione finale della parabola mostra il giusto giudizio di Dio verso coloro che hanno rifiutato la sua grazia. Il debitore è consegnato agli aguzzini finché non avrà restituito tutto, proprio come egli aveva promesso.

Gesù ci chiede di perdonare di cuore, condividendo la gioia della sua misericordia; questa può scaturire dalla consapevolezza di avere un Dio che per primo è disposto a perdonarci, non sette volte, ma settanta volte sette.

Preghiera

Crea in noi, Signore, un cuore puro; sostituisci il cuore di pietra con un cuore di carne, affinché possiamo condividere con i nostri debitori la gioia del tuo perdono. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 13 agosto 2025

Fermati 1 minuto. Una sinfonia di cuori davanti a Dio

Lettura

Matteo 18,15-20

15 Se il tuo fratello commette una colpa, va' e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; 16 se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. 17 Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano. 18 In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo.
19 In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. 20 Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro».

Commento

Spesso ci viene proposto un cristianesimo consistente in una totale sospensione del giudizio e legittimazione di ogni errore in nome del principio di "non giudicare"; invece Gesù ci insegna che si può e si deve riprendere il fratello e che la correzione fraterna, quando fatta con umiltà e discrezione è essa stessa un atto di misericordia.

Se il fratello non ascolterà il nostro consiglio allora potremo tornare da lui accompagnati da due o tre amici. Secondo la legge ebraica per dar forza legale ad un'accusa o dimostrare un reclamo, si richiedevano almeno due testimoni (Dt 19,15) e Gesù, per evitare che nella comunità si facessero ingiustizie o si lanciassero false accuse, adotta la medesima regola.

Il terzo passo da compiere, qualora il fratello continui a non volere ravvedersi è il ricorso alla chiesa. Il termine greco ekklesia, che significa "assemblea", ricorre solo due volte nei Vangeli, qui e in Mt 16,18. In questo contesto si riferisce non alla chiesa universale ma all'assemblea locale, che aveva la facoltà di dirimere le questioni disciplinari. A giudicare è dunque non un vescovo o una singola autorità ecclesiastica, ma la congregazione dei credenti (non esisteva monepiscopato nel periodo apostolico).

Significativa, per comprendere la questione dell'autorità nella chiesa, è la ripetizione in questo passo della frase relativa al potere "di sciogliere e di legare" in precedenza pronunciata nei confronti di Pietro (Mt 16,18), ma ora estesa ai discepoli e a tutta la congregazione guidata dallo Spirito e in armonia con la legge di Cristo.

L'importanza delle piccole comunità, che costituivano la realtà della chiesa primitiva è attestata dal passaggio da un discorso disciplinare a quello relativo all'efficacia della preghiera. Gesù parla letteralmente di una "sinfonia" tra "due che si accordano" (gr. duo sinfonèsosin) che suscita l'ascolto da parte di Dio. Il Signore riduce al minimo indispensabile il numero di credenti che possono radunarsi in preghiera e anche qui il numero di due o tre sembra richiamare quello dei testimoni per la correzione del fratello. 

Gesù non vuole proclamare inutile la preghiera individuale, il cui valore aveva apertamente affermato: «Quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,6). Sottolinea però l'efficacia di una richiesta fatta nella comunione dei cuori, anche quando ridotta al suo minimo denominatore: due persone.

Per la legge giudaica del tempo di Gesù una sinagoga non poteva essere aperta se vi erano meno di dieci persone. Con queste sue parole il Signore afferma che il piccolo numero delle prime comunità cristiane non deve scoraggiare i credenti dal riunirsi in preghiera. Di più, egli promette di essere in mezzo a loro, come mediatore che intercede presso il Padre, anche quando saranno due o tre.

Il Signore non poteva essere più chiaro relativamente alla forma che deve assumere la sua chiesa nell'esercizio della disciplina e nel culto di adorazione a Dio. Non ci propone una o più persone con un potere derivante da un "vicariato". Non c'è bisogno di un vicario perché egli non è vacante dalla sua chiesa, ne è anzi il capo, mentre questa è il suo corpo vivificato dallo Spirito. La comunità, anche la più piccola, può contare sulla presenza del Risorto; egli è con noi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28,20).

Preghiera

O Dio, manda il tuo Spirito, affinché possiamo essere un cuore solo nella tua chiesa. La comunione fraterna, nella fede e nella preghiera, ti renda presente in mezzo a noi. Amen.

Jeremy Taylor. Spendere il tempo per Dio e i soldi per i poveri

Nel 1667 muore in Irlanda Jeremy Taylor, vescovo anglicano di Down e Connor.
Nato nel 1613 in Inghilterra, Taylor compì i suoi studi a Cambridge. Ordinato presbitero nel 1633, egli divenne rettore di Uppingham cinque anni più tardi. Fatto cappellano del re Carlo I, alla morte di quest'ultimo Jeremy partì per l'Irlanda dove fu eletto vescovo di Down e Connor.
Autore di opere polemiche, abituato ad attingere sia alla lettura spirituale della Scrittura che al Book of Common Prayer, Jeremy Taylor è amato e ricordato nella chiesa anglicana soprattutto per i suoi insegnamenti sulla vita interiore, la preghiera e il senso cristiano della morte, caratterizzati, secondo la migliore tradizione anglosassone, dalla concretezza, dall'estrema sobrietà e dalla ricerca di una profonda unità tra l'esperienza religiosa e la vita di ogni giorno.

Tracce di lettura

Sebbene in un primo tempo non sia gradevole pensare a dedicare buona parte del nostro tempo ad atti espliciti di culto o di preghiera, tuttavia diverrà non solo un dovere, ma anche un fatto provvidenziale l'abbandono di ogni attività che ci è possibile lasciare per dedicarci al servizio di Dio e all'opera dello Spirito in noi. Il miglior commerciante è colui che spende il suo tempo per Dio e il suo denaro per i poveri.
(J. Taylor, Il santo vivere).

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose