Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

venerdì 17 gennaio 2025

Antonio il Grande e il combattimento spirituale nel deserto

L'itinerario spirituale di Antonio il Grande ci è noto attraverso il racconto della sua vita che ne fece Atanasio, vescovo di Alessandria, in Egitto. Si narra nella Vita che quando Antonio sentì proclamare in chiesa le parole rivolte dal Signore al giovane ricco: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi tutto quello che possiedi e dallo ai poveri; poi vieni, seguimi e avrai un tesoro nei cieli" (Mt 19,21), "come se la lettura fosse proprio per lui", subito si affrettò a metterlo in pratica. "Abbiamo le scritture e la libertà dataci dal Salvatore", amava ripetere (Vita di Antonio 26,4). Antonio non cerca altro che vivere il vangelo nella libertà da qualsiasi compromesso con la mondanità, nella libertà dalle passioni, frutto di una dura lotta interiore.
Se nei primi passi della vita monastica si fa guidare da un anziano monaco nei pressi del suo villaggio, poi si inoltra nel deserto dove è raggiunto da numerosi discepoli; la fama della sua sapienza spirituale, della sua mitezza, del suo discernimento varca i confini dell'Egitto: i filosofi pagani lo vogliono incontrare per discutere con lui, l'imperatore gli scrive. Assediato dalle folle che gli chiedono un consiglio, una parola di consolazione, di incoraggiamento, Antonio, ormai anziano, pacificato e operatore di pace, si ritira sul monte Qolzum, dove tuttora vi è un monastero a lui dedicato. Attraverso la biografia scritta da Atanasio, definita da Gregorio di Nazianzo, "regola di vita monastica sotto forma di racconto" (Discorso 21,5), Antonio diventa padre dei monaci sia d'oriente che d'occidente.

Tracce di lettura

Disse abba Antonio ad abba Poemen: «Questo è il grande lavoro dell'uomo: gettare su di sé il proprio peccato davanti a Dio e attendersi la tentazione fino all'ultimo respiro».

Disse ancora: «Dal prossimo ci vengono la vita e la morte. Perché se guadagniamo il fratello guadagniamo Dio, ma se scandalizziamo il fratello pecchiamo contro Cristo».

Disse ancora: «Chi dimora nel deserto e cerca la pace è liberato da tre guerre: quella dell'udito, quella della lingua e quella degli occhi. Gliene resta una sola: quella del cuore».

Tre padri avevano l'abitudine di recarsi ogni anno dal beato Antonio. Due di loro lo interrogavano sui pensieri e sulla salvezza dell'anima; uno, invece, taceva sempre e non chiedeva nulla. Dopo molto tempo abba Antonio gli disse: «Da tanto tempo vieni qui e non mi chiedi niente!». E quello gli rispose: «Mi basta vederti, padre!».

(Detti dei padri, Serie alfabetica, Antonio 4.9.11.25.27)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. Lasciare andar via

Lettura

Marco 2,1-12

1 Ed entrò di nuovo a Cafarnao dopo alcuni giorni. Si seppe che era in casa 2 e si radunarono tante persone, da non esserci più posto neanche davanti alla porta, ed egli annunziava loro la parola.
3 Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone. 4 Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov'egli si trovava e, fatta un'apertura, calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico. 5 Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: «Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati».
6 Seduti là erano alcuni scribi che pensavano in cuor loro: 7 «Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?».
8 Ma Gesù, avendo subito conosciuto nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: «Perché pensate così nei vostri cuori? 9 Che cosa è più facile: dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina? 10 Ora, perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, 11 ti ordino - disse al paralitico - alzati, prendi il tuo lettuccio e va' a casa tua». 12 Quegli si alzò, prese il suo lettuccio e se ne andò in presenza di tutti e tutti si meravigliarono e lodavano Dio dicendo: «Non abbiamo mai visto nulla di simile!».

Commento

Il miracolo compiuto da Gesù per guarire il paralitico di Cafarnao mostra il ruolo della fede nell'attivare il potere di guarigione del Signore. L'utilizzo del verbo greco aphiemi, "lasciare andar via", indica che la remissione dei peccati operata da Gesù è un atto di liberazione integrale della persona sofferente. 

Come narrato dall'evangelista Marco la remissione dei peccati è attribuita direttamente a Gesù, per questa ragione egli viene accusato di bestemmia. L'accusa contro di lui viene dai dottori della legge e non dal popolo. Spesso proprio coloro che dovrebbero fare da guida confondono la luce con le tenebre.

Gesù non si limita a predicare nella sinagoga, ma utilizza ogni tempo e luogo per ammaestrare le folle e sanare gli ammalati, come una semplice casa, in un giorno feriale. Dall'avvento di Cristo, il regno di Dio è tra noi, il Risorto e lo Spirito che ci ha donato agiscono anche oltre i confini dei luoghi istituzionali di culto. 

Il fatto che il paralitico sia portato su un lettino indica la severità del suo stato di salute; egli è probabilmente tetraplegico. Il modo "rocambolesco" con cui gli amici del paralitico cercano di condurre questi a Gesù attesta non solo la loro fede ma anche la grande compassione per l'amico malato. Il loro gesto testimonia la potenza dell'intercessione dei credenti. 

Gesù rimette i peccati al paralitico anziché compiere un gesto diretto di guarigione, attestando che la radice da cui scaturisce ogni male è il peccato, non necessariamente quello individuale (come dimostra il racconto di Giobbe), ma quello che rende l'umanità responsabile "in solido" e che è entrato nel mondo per opera del Maligno. Gesù cura l'effetto, che è la malattia, allontanando la causa, che è il peccato.

Rimettendo il peccato e compiendo la guarigione con una formula indicativa ("Ti sono rimessi"... "Io ti dico...") Gesù dichiara implicitamente l'autorità ricevuta dal Padre, testimoniata anche dal prodigio dell'immediato recupero della salute del paralitico. 

Il comandamento di allontanarsi con il suo lettuccio all'uomo risanato attesta che, sebbene egli porti con sé il segno della sua pregressa malattia, ha recuperato appieno le sue forze ed è pronto per rimettersi in cammino compiendo la volontà di Dio. Il peccato può lasciare in noi cicatrici profonde, ma per la grazia che ci è donata in Cristo dobbiamo guardarle lasciando andare via il timore, per esprimere amore e gratitudine verso colui che si è preso cura delle nostre ferite.

Preghiera

Rendici, Signore, consapevoli del bisogno di essere da te guariti e liberati dai lacci del peccato; affinché possiamo riprendere, con rinnovato vigore, la corsa verso la gloria del tuo regno. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 16 gennaio 2025

Georg Burkhardt, detto Spalatino. Umanista e riformatore in Sassonia

Georg Burckhardt, detto generalmente lo Spalatino dal suo luogo di origine, Spalt (Norimberga), dove nacque il 17 gennaio 1484, fu sacerdote e umanista. Educato a Norimberga e a Erfurt, insieme con Lutero, entrò ben presto in rapporti molto stretti con la corte elettorale di Sassonia, presso la quale fu dapprima precettore dell'elettore Giovanni Federico e dal 1514 cappellano e segretario di Federico il Saggio. Data tale sua posizione servì da intermediario tra l'elettore Federico e Lutero e contribuì non poco al primo affermarsi della Riforma.
Burkhardt contribuì all'introduzione della Riforma e all'organizzazione della Chiesa luterana in Sassonia; partecipò poi alla stesura della Confessione di Augusta del 1530. Scrisse gli Annales reformationis, un elenco di fatti e personaggi della Riforma dal 1463 al 1526 e partecipò su invito di Lutero alla stesura degli Articoli di Smalcalda, sollecitati dal principe elettore di Sassonia, Giovanni Federico I (1532-1547) come risposta alla bolla papale Ad dominici gregis.
Morto Federico, ebbe la confidenza anche dell'elettore Giovanni il Costante, ma dal 1525 si ritirò ad Altenburg, dove svolse il ministero pastorale e morí il 16 gennaio 1545.
Tradusse in latino scritti di Lutero, Melantone, Erasmo, e scrisse una sua autobiografia e le vite degli elettori di Sassonia Federico, Giovanni e Giovanni Federico. Del suo prezioso epistolario la massima parte giace ancora inedita a Weimar.


Lucas Cranach, Ritratto di Georg Spalatino (1509), Lipsia, Museum der Bildenden Künste

Fermati 1 minuto. Non il timore degli schiavi ma la maturità dei figlio di Dio

Lettura

Marco 1,40-45

40 Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi guarirmi!». 41 Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, guarisci!». 42 Subito la lebbra scomparve ed egli guarì. 43 E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: 44 «Guarda di non dir niente a nessuno, ma va', presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro». 45 Ma quegli, allontanatosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte.

Commento

Fino a questo momento Gesù aveva manifestato solo in privato il suo atteggiamento critico nei confronti della legge; ora invece si mette apertamente contro di essa, toccando il lebbroso per sanarlo. Questa "rottura" è possibile perché con lui si inaugura il regno di Dio e la schiavitù della legge è sostituita dal nuovo patto tra Dio e l'uomo nella grazia. 

Inginocchiandosi, il lebbroso mostra la sua umiltà verso Cristo, e proclama la certezza di poter essere guarito, mostrando una fiducia salda, che gli farà ottenere proprio ciò in cui spera. La compassione di Gesù, letteralmente la sua "commozione" (gr. splenchnizomai) si trova solo nei sinottici e indica la sua umanità, immagine perfetta della misericordia divina.

Gesù nel guarire il lebbroso non ha bisogno di rivolgere una preghiera di supplica a Dio ma parla con autorità: «Lo voglio, guarisci!»; ciò testimonia la sua investitura messianica e il suo agire in sinergia con il Padre. Il verbo utilizzato per "guarire" è il greco katharizo, il cui significato proprio è quello di "purificare". L'azione di Cristo non solo guarisce il corpo, ma rigenera lo spirito. 

Una volta guarito il lebbroso Gesù "lo rimandò" (v. 43), perché il tocco della sua mano risanatrice ci restituisce la libertà dei figli di Dio. Dirà Paolo, nella lettera ai Romani: "voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi" (Rm 8,15). La vera religione non è dipendenza psicologica, alienazione, ma maturazione della nostra persona, che si apre a una dimensione di gratitudine verso Dio e generosità verso il prossimo. 

Il comando di Gesù di non dir niente a nessuno è volto ad evitare che la folla e i curiosi siano attratti unicamente dalle sue guarigioni. Ma nonostante questo divieto il lebbroso sanato comincia a "proclamare e divulgare il fatto" (v. 45); è difficile nascondere un evento così clamoroso. D'altra parte anche recandosi al tempio per un sacrificio di ringraziamento il lebbroso sanato avrebbe generato grande stupore, poiché in tutta la Bibbia troviamo solo due casi in cui Dio guarisce un lebbroso (Nm 12,10-15; 2 Re 5,1-14). 

Dopo aver compiuto miracoli e predicato, Gesù torna alla ricerca di luoghi deserti, per dedicarsi alla preghiera. È questo il duplice movimento del Figlio, inviato dal Padre, che si affaccia sul mondo, e al Padre ritorna, per celebrarne la gloria.

Preghiera

Purifica le nostre anime e i nostri corpi Signore, affinché possiamo essere sacrificio a te gradito, proclamando nel mondo la tua lode. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 15 gennaio 2025

Serafino di Sarov. Farsi cosa tra le cose, per ricapitolare l'intera creazione in Dio

Nel 1759 nasce a Kursk, in Russia, Prochor Mošnin, diventato più tardi uno dei più amati monaci russi e canonizzato dal Patriarcato di Mosca il 19 luglio del 1903 con il nome di Serafim di Sarov. Recatosi diciottenne in pellegrinaggio alle Grotte di Kiev, Prochor fu indirizzato dallo starec Dositeo all'eremo di Sarov, dove intraprese con tale convinzione la vita monastica da ricevere alla professione il nome di Serafim, «l'ardente». 
Serafino di Sarov è il santo più amato e venerato, con san Sergio di Radonez, tra tutti i santi russi; egli è una vera e propria «icona della spiritualità russa» (Pavel Evdokimov), una delle sue espressioni più mature e consapevoli. Serafino è il santo serafico, dolce e mite di cuore, uno dei volti più luminosi di tutta la tradizione ortodossa; ma vi è in lui anche un’eccedenza che trascende questa stessa tradizione che lo ha nutrito. Proprio perché egli ne incarna fino in fondo le radici, il suo messaggio ha una portata universale, per tutte le Chiese e per tutti gli uomini.
Prokhor Moshnin, il futuro starec Serafino, nacque a Kursk, nel governatorato di Tambov, il 19 luglio 1759, da una famiglia di mercanti. Il padre Isidoro (Sidor) morì quando Procoro aveva solo tre anni; la madre Agathia gli trasmise una grande eredità di fede e di preghiera. Già le Vite più antiche narrano come a sette anni rimase illeso cadendo dalle impalcature della chiesa, dedicata a san Sergio, che l’impresa di famiglia stava costruendo: la madre vi lesse un intervento miracoloso della Madre di Dio.
Sin da ragazzo, Procoro imparò a leggere assiduamente i Salmi e i Vangeli. A diciassette anni si recò in pellegrinaggio a Kiev, per interrogare e ascoltare il celebre recluso Dosifej, che lo indirizzò all’eremo di Sarov. Il 20 novembre 1779, vigilia della Presentazione al Tempio della Madre di Dio, il giovane Procoro iniziò il suo noviziato, lavorando per obbedienza prima come fornaio, poi come falegname. In questi anni conobbe gli scritti dei Padri sulla vita spirituale e iniziò a praticare la preghiera di Gesù. Fu allora che una misteriosa e lunga malattia lo colpì, costringendolo a letto per diciotto mesi. Al superiore di Sarov, lo starec Pacomio, preoccupato per la vita del giovane, egli confidò: «Ho consegnato me stesso ai veri medici delle anime e dei corpi: il Signore nostro Gesù Cristo e la sua purissima Madre, la benedetta Vergine Maria». E la Madre di Dio visitò il novizio Procoro, risanandolo.
Questo episodio ha un valore emblematico. Molti anni dopo, quando dei briganti assalirono Serafino che si era ritirato nella solitudine della foresta di Sarov, lasciandolo in fin di vita, la Madre di Dio ritornò a manifestarsi a lui, accompagnata dagli apostoli Pietro e Giovanni, ai quali avrebbe detto: «Costui è della nostra stirpe». Come san Sergio di Radonez, come san Francesco di Assisi in Occidente, Serafino appartiene a una particolare “qualità” di testimoni nella storia della Chiesa: alla nuvola degli ermeneuti, dei narratori dell’agape, della dolcezza, della tenerezza; coloro che sperimentano e quindi affermano che Dio è soltanto amore (cfr. 1Gv 4, 8), quelli che conservano le parole nel proprio cuore (Lc 2, 51) piuttosto che predicarle con la bocca, coloro che fanno di ogni giorno un’alba in cui correre pieni di fuoco verso il sepolcro per contemplare la Risurrezione. Maria, la Madre del Signore, Pietro, Giovanni: meravigliosa e bruciante costellazione che attraversa la storia nel segno dell’accoglienza reciproca, nel ridirsi costantemente madre e figlio (cfr. Gv 19, 26-27), nel consumarsi di amore per l’incontro con l’Amato, nel rallegrarsi per la risurrezione di Cristo! Che cosa possono ridire incessantemente questi testimoni dei primi giorni se non che «Cristo è risorto!»? Serafino, anch’egli della stessa stirpe di questi santi agapici, quando incontrava un fratello lo salutava con l’augurio pasquale in ogni tempo dell’anno: «Radost’ moja, Christos voskrese! [Mia gioia, Cristo è risorto!]». Leggendo la sua vita non possiamo che acconsentire alle parole pronunciate dalla Madre di Dio su di lui, non possiamo che cogliere il fiammeggiante tra i fiammeggianti, i serafini neotestamentari che hanno vissuto di amore.
«Il 13 agosto 1786, con l’autorizzazione del Santo Sinodo, Procoro fu tonsurato monaco dal superiore, lo ieromonaco Pacomio, e gli fu imposto il nome di Serafino. Accolto il nuovo nome angelico, egli distolse gli occhi dalle cose vane e, convertitosi con la conversione voluta da Dio, diresse il proprio cammino, nell’attenzione interiore e con la mente immersa nella contemplazione di Dio, verso l’eterno sole di verità, Cristo Dio, il nome del quale egli portava sempre nel cuore e sulle labbra». Così è raccontato l’inizio del cammino monastico di Serafino in una delle prime Vite. Ancora diacono, durante la liturgia ebbe la visione del Cristo veniente nella gloria. Nel 1793 fu ordinato prete dal vescovo di Tambov; dopo la morte del superiore Pacomio nel 1794, chiese al suo successore Isaia il permesso di condurre vita solitaria. Ritiratosi in un’isba nella foresta, che chiamerà «il Piccolo deserto lontano», si diede a una vita ascetica contraddistinta da lunghi digiuni, frequenti veglie e dal lavoro in un orticello da cui traeva il sostentamento. Tornava in monastero solo la domenica per la liturgia comune e per comunicare all’eucaristia.
Teso a rivivere la vita di Cristo, Serafino diede al suo deserto i nomi della terra dell’incarnazione del Signore, per averne una memoria incessante. Un angolo della foresta è chiamato Nazareth, un altro Betania, la cima di una collina è indicata come Monte delle Beatitudini, una grotta è chiamata Getsemani. Ogni settimana leggeva per intero il Nuovo Testamento e le Regole di Pacomio, si esercitava nell’ininterrotta memoria di Dio praticando la preghiera del cuore, apprendeva e metteva in pratica gli scritti dei grandi padri monastici, e soprattutto continuava il suo sforzo di purificazione su cammini spirituali di cui purtroppo molti uomini ignorano l’esistenza.
Ma qui, nel deserto della solitudine e della lotta contro le passioni e i pensieri ispirati dal demonio, Serafino conosce la sua “discesa agli inferi”. Ogni credente sa che prima o poi, nel suo cammino spirituale, interviene un’ora cattiva, di prova, di lotta indicibile e mai raccontabile agli altri. È l’ora in cui Dio sembra consegnare il suo servo alle potenze infernali, a quelle dominanti nascoste che si mostrano coabitanti nell’uomo, così che l’uomo di preghiera si trova gettato in un faccia a faccia spaventoso e disperato con il male. Anche Mosè, servo di Dio, conobbe quest’ora quando «il Signore gli andò incontro e cercò di farlo morire» (Es 4, 24). Ogni cristiano che ha ricevuto un grado di fede elevato e una missione particolare da Dio, prima o poi conosce questa notte oscura, che ci visita nella malattia fisica, o nella malattia psichica, o nell’esperienza del peccato più devastante. È sempre un’ora misteriosa di cui più tardi neanche il protagonista sa riconoscere l’inizio e la fine, come sia avvenuta la discesa e la risalita, la morte e la risurrezione. Battezzato nella morte di Cristo, colui che è impegnato in una reale sequela deve scendere con Lui negli inferi prima di essere nuova creatura. Sovente questa discesa è la garanzia di un’assunzione seria e decisiva della propria vocazione, di una chiara coscienza di sé quale peccatore perdonato, un salvato da Dio.
Serafino aveva già sperimentato questo abitare nell’ombra della morte nella lunga malattia da novizio, ma negli anni del suo apprendistato della vita eremitica vive quella che sarà la sua esperienza ascetica, il suo podvig più radicale. Come gli antichi stiliti del deserto, Serafino trascorre tre anni, mille giorni e mille notti in preghiera, inginocchiato di giorno su una pietra nella sua cella, e di notte sopra una roccia della foresta, le mani levate al cielo, gridando incessantemente: «Signore, abbi pietà di me, peccatore!». Serafino conosce la discesa all’inferno attraverso le degradazioni dell’essere creato, dall’umano all’animale al vegetale fino a farsi cosa tra le cose, roccia e vento, ricapitolando così tutto il passato cosmico, assumendo nel suo corpo e nel suo modo di vivere la preghiera e il gemito di ogni creatura, divenendo così voce e invocazione di misericordia non solo per tutti gli uomini peccatori, ma per la creazione intera, che geme e soffre in attesa della propria redenzione.
Per tre anni, forse tra il 1807 e il 1810, Serafino osserva il silenzio più assoluto. Dio lo ha reso muto, agnello afono come il Cristo nella passione. Che cosa accadde? Perché quest’ascesi estrema, questo totale estraniamento dalla comunità degli uomini? Non lo sapremo mai! Forse quest’assenza di parola è anch’essa, paradossalmente, una profezia: il silenzio è il linguaggio delle realtà inanimate, ma è anche il linguaggio del mondo futuro. Il comportamento di questo eremita doveva però apparire a molti bizzarro o incomprensibile. Il nuovo superiore Nifonte richiama Serafino dal suo “Piccolo deserto lontano” chiedendogli di ritornare a vivere in monastero. Serafino obbedisce, il Signore sembra chiamarlo a una nuova tappa nel suo cammino di trasfigurazione a immagine di Cristo.
Ritornato a Sarov, Serafino visse per alcuni anni in completa reclusione nella sua cella. Un’icona della Madre di Dio, che egli chiama «gioia di tutte le gioie», è la testimone silenziosa della sua preghiera incessante. Sono ormai passati più di trent’anni dalla sua entrata in monastero. Il lungo tempo della preparazione è terminato, la metamorfosi pneumatica si è compiuta, i demoni sono vinti, e Serafino partecipa ormai delle condizioni del Risorto. Nel 1813 attenua il rigore della reclusione e comincia ad accogliere ospiti e pellegrini ai quali dà i suoi consigli, quale starec ormai pervenuto al discernimento, alla pace interiore. Questo rinnovato incontro con i fratelli nella luce mostra che Serafino non aveva fuggito gli uomini, bensì il mondo; disceso agli inferi con Cristo, con il Cristo risorto dai morti può ora annunciare con gioia e autorevolezza la vittoria definitiva di Cristo sulla morte.
La luce ormai ardente non può restare nascosta. Nel 1825, per un’ispirazione della Tutta Santa, la Madre di Dio, Serafino esce dalla sua cella. Inizia qui l’ultima tappa della sua vita, la sua epifania. Serafino risuscitato, rialzato, risollevato dalla potenza di Dio che lo ha chiamato alla divinizzazione, incontra i contadini, i poveri, gli ultimi, di cui si fa padre e pastore. Consola, esorta e guarisce, mostrando l’icona della Madre di Dio «gioia di tutte le gioie», e con gli occhi pieni di Dio saluta ogni volto che incontra riconoscendovi il volto dell’Amato: «Mia gioia, Cristo è risorto!».
Nel suo ministero di padre spirituale Serafino opera il discernimento degli spiriti su quanti gli chiedono una parola di consolazione o di illuminazione, cura e guarisce i sofferenti, ascolta a lungo le confessioni di uomini e donne pieni di vergogna per i loro peccati, mostra di comprendere il loro smarrimento con la tenerezza di una madre, e infiamma tutti di quella carità infinita capace di amare tutte le creature, animate e inanimate, coscienti e incoscienti, intelligenti e sceme, buone e malvagie. «Dio è fuoco che brucia e infiamma il cuore e le viscere», scrive nei suoi Insegnamenti. Folle di pellegrini accorrono a lui: il “misero Serafino” resta però umile e gioioso, rifugiandosi sovente nella foresta per conservare la pace e vivere la santa esichia (bezmolvie), la quiete interiore dell’uomo che sa comunicare con Dio e con i fratelli.
Non poteva essere altrimenti: chi si è fatto stavroforo (portatore della croce) con Cristo, è fatto da Dio pneumatoforo (portatore dello Spirito)! «Fin da ora, già adesso e qui», insiste Serafino, «occorre vivere la gioia del Regno, la comunione con il Signore, occorre acquisire il dono dello Spirito Santo», il Consolatore che fa di ciascuno l’abitazione di Dio. Serafino aveva imparato a farsi obbediente soltanto allo Spirito, che in lui parlava senza ostacoli: «Il primo pensiero che mi si affaccia alla mente, ritengo sia Dio a inviarmelo, così parlo senza sapere che cosa sta succedendo nell’anima del mio interlocutore, ma con la certezza che questa è la volontà di Dio ed è per il suo bene. Ma a volte accade ch’io risponda a una qualche questione senza affidarla alla volontà di Dio, fidandomi della mia ragione, pensando sia possibile risolverla senza ricorrere a Dio. Ma in quei casi commetto sempre degli errori». Così il santo parla candidamente del suo discernimento. Egli non andava dall’uomo a Dio, ma da Dio all’uomo.
Di questa sua docilità allo Spirito Santo ci hanno lasciato una commovente testimonianza le sorelle della “Comunità del Mulino” di Diveevo, la comunità monastica femminile che Serafino aveva seguito dalla fondazione e alla quale aveva preposto come responsabile Elena Manturova, una giovane monaca di Diveevo che lo stesso Serafino aveva preparato sin da ragazza a questo compito. Egli desiderava predisporre tutto per una integrale formazione spirituale e umana per queste giovani in ricerca di un autentico cammino monastico: la sua sapiente e amorevole guida paterna seppe dare alla fragile comunità di sorelle quegli strumenti spirituali che permisero loro di continuare nella fedeltà alla vocazione ricevuta, nonostante le difficoltà e le divisioni, nonostante le prove e le sofferenze, soprattutto dopo la rivoluzione del 1917, quando la comunità fu dispersa e perseguitata.
Oggi il monastero di Diveevo è ricostruito, è ancora meta di fedeli, luogo di preghiera e di invocazione della misericordia di Dio sulla Russia e sul mondo. Quando nel 1991 le reliquie di san Serafino furono ritrovate nel deposito del Museo dell’ateismo (oggi di nuovo la Cattedrale della Madre di Dio di Kazan’ a San Pietroburgo), un’incredibile folla seguì la loro traslazione a Diveevo: lo spirito di amore e di perdono che san Serafino aveva saputo discernere e accogliere nella sua vita si era rivelato ancora una volta più forte dell’odio e della distruzione che gli uomini sono capaci di operare.
Nella trasfigurazione del Signore sul monte Tabor i discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni riuscirono a vedere il Cristo trasfigurato poiché erano stati essi stessi trasfigurati in quella medesima luce. Così avvenne anche per san Serafino e per quanti ebbero la grazia di incontrarlo. La trasfigurazione non è evento che si chiude sul trasfigurato, ma è evento che trasfigura quelli che ne sono i testimoni, quelli che sperimentano il privilegium amoris di vivere accanto a Lui, come accanto a Serafino vissero Elena Vasilievna Manturova e suo fratello Michail, le povere orfanelle della Comunità del Mulino e il giovane Nikolaj Motovilov, che san Serafino guarì da una grave paralisi. È a quest’ultimo che il santo si mostrò mentre la luce divina gli trasfigurava il volto. Gli appunti di Motovilov purtroppo andarono perduti con la dispersione degli archivi di Diveevo, ma nel 1903, l’anno della canonizzazione di Serafino, il noto pubblicista Sergej Nilus ne aveva pubblicato una parte col titolo di Dialogo dello starec Serafino con A. N. Motovilov sul fine della vita cristiana. Grazie a questa pubblicazione, ben presto tradotta in tutte le lingue, nel XX secolo il messaggio di san Serafino ebbe una grandissima diffusione anche in Occidente. Il fine della vita cristiana, rivela Serafino al suo amico, è l’acquisizione dello Spirito Santo, quello spirito di amore che Cristo visse fino all’estremo.
Il 2 gennaio 1833, inginocchiato davanti all’icona della Madre di Dio, «gioia di tutte le gioie», Serafino incontrò Colui che egli aveva tanto cercato, il Cristo umile, dolce e misericordioso. Lo Spirito Santo, da lui acquisito con la sua vita monastica, lo aveva guidato, donando sempre alla sua lampada l’olio dell’amore gioioso, frutto dello Spirito. San Serafino non fu mai preoccupato del rigorismo dell’osservanza, non disdegnò mai la tavola dei peccatori, fu un padre materno, sognò e cantò la Risurrezione, non vide mai un fratello all’inferno, non accettò mai che un uomo fosse nella tristezza.
Si narra nei detti dei Padri del deserto che abba Giuseppe di Panefisi ricevette il monaco Lot, che gli chiese: «Abba, io celebro come posso la mia liturgia, faccio digiuno, prego, medito, vivo nel raccoglimento, cerco di essere puro nei pensieri. Che cosa devo fare ancora?». Il vecchio, alzatosi, aprì le braccia verso il cielo e le sue dita divennero come fiamme: «Se vuoi», gli disse, «diventa tutto di fuoco».
Serafino è un monaco diventato tutto di fuoco, fuoco agapico, universale, cosmico. Ora egli, nella comunione dei santi del cielo, accelera la comunione dei santi della terra che guardano a lui come a un testimone dell’amore universale, un ermeneuta dello Spirito Santo.

- Enzo Bianchi, 30Giorni, n. 5, 2009

Serafim di Sarov (1759-1833)

Fermati 1 minuto. I due movimenti del cuore del cristiano

Lettura

Marco 1,29-39

29 E, usciti dalla sinagoga, si recarono subito in casa di Simone e di Andrea, in compagnia di Giacomo e di Giovanni. 30 La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. 31 Egli, accostatosi, la sollevò prendendola per mano; la febbre la lasciò ed essa si mise a servirli. 32 Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. 33 Tutta la città era riunita davanti alla porta. 34 Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano. 35 Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava. 36 Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce 37 e, trovatolo, gli dissero: «Tutti ti cercano!». 38 Egli disse loro: «Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». 39 E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.

Commento

Quello compiuto per la suocera di Pietro è il primo miracolo di guarigione di Gesù, che limitandosi a toccare a sollevare la donna prendendola per mano sottolinea la differenza tra il suo modo di agire e i gesti magici dei guaritori. 

Appena liberata dalla febbre la suocera di Pietro si mette a servire Gesù e i suoi discepoli. Quando il Signore sana le nostre infermità scopriamo in noi un rinnovato spirito di diaconìa, la volontà di metterci al servizio dei fratelli e delle sorelle. 

Le folle - "tutta la città" - si accalcano davanti alla porta della casa in cui Gesù si trova, dopo il tramonto del sole, ovvero al termine del riposo sabbatico (v. 32). Gesù guarisce numerosi malati e libera diversi posseduti. Che si tratti di veri e propri casi di possessione diabolica lo si inferisce dal fatto che Gesù ordina ai demòni di tacere (v. 34), cosa che non avrebbe fatto nei confronti di una malattia. Pur riconoscendo la verità che Gesù è il Cristo i demoni la rifiutano. 

Dopo aver beneficato le tante persone accorse a lui Gesù sente il bisogno di una sosta per il suo spirito (v. 35); il ritirarsi in preghiera è uno dei momenti caratteristici della sua vita. Non esistendo deserti nei pressi di Cafarnao, qui la parola eremos è da intendere semplicemente come luogo solitario. Gesù, vero Dio, adorato e glorificato dagli angeli fin dall'eternità, è anche vero uomo e come tale prega il Padre, dedicando a questo servizio la primizia delle ore del giorno. Il suo impegnativo ministero di predicazione e guarigione non gli impedisce di trovare il tempo e il luogo adatto per la preghiera. Egli prega come ci ha insegnato, non ritto nelle piazze come gli ipocriti (Mt 6,5), ma in luogo appartato, nel segreto. 

Nell'affermare la volontà di estendere il proprio ministero ai villaggi circostanti Gesù utilizza il verbo greco exerchomai che è forse da riferirsi in questo passo del Vangelo di Marco non tanto all'uscire di casa, ma al venire dal Padre come suo messaggero. L'urgenza di predicare la buona notizia e la necessità di una intensa vita contemplativa sono il movimento diastolico e sistolico del cuore del cristiano, l'inspirazione e l'espirazione della sua anima, secondo il modello di colui che è venuto dal Padre e ritorna al Padre, dopo aver raccolto una messe abbondante.

Preghiera

Signore Gesù Cristo, che sei venuto a sanare ogni genere di malattie e a liberarci da potere del maligno, concedici di contemplare la tua gloria e di annunciarla con sollecitudine. Amen.

Rev. Dr. Luca Vona