Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

sabato 8 marzo 2025

Giovanni di Dio. Un "folle per Cristo" d'occidente

Il discernimento della propria vocazione non sempre passa per vie piane e lineari. Lo testimonia Giovanni di Dio, di cui oggi ricorre la festa secondo il Calendario romano. 
Nato nel 1495 a Montemoro-Novo, in Portogallo, Giovanni Ciudad subì un primo grosso trauma quando, non ancora decenne, fu sottratto misteriosamente e per sempre alla sua famiglia, e fu condotto a fare il pastore in Spagna, a Oropesa. 
Arruolatosi in seguito nell'esercito spagnolo, egli percorse con scarsa fortuna e diverse disavventure la carriera militare, finché non decise di lasciare le armi per fare il venditore ambulante di libri a Granada. Secondo il suo biografo, qui avvenne l'incontro determinante con la predicazione di Giovanni di Avila: ne fu folgorato a tal punto che decise di diventare una sorta di folle per Cristo. 
Dopo un drammatico periodo trascorso in manicomio, egli ne uscì con una sola idea per la propria vita: assistere gli ammalati e i poveri abbandonati di Granada. Giovanni, che aggiunse a questo punto la qualifica «di Dio» al proprio nome, divenne il riferimento fondamentale per gli emarginati della città, e a lui cominciarono a unirsi altri uomini desiderosi di servire Cristo nei poveri e negli infermi, soprattutto nei più emarginati quali i malati mentali. 
Giovanni di Dio morì l'8 marzo del 1550 e dopo la sua morte, sebbene egli mai avesse cercato di fondare un ordine religioso, grazie al suo esempio nacquero i «Fatebenefratelli», così chiamati dal saluto con cui Giovanni e i suoi discepoli erano soliti mendicare aiuto per i loro malati nelle vie di Granada.

Tracce di lettura

Per vincere il mondo, il diavolo e la carne, è necessario non confidare in se stessi, perché si cadrà mille volte al giorno in peccato, ma confidare solo in Gesù Cristo e unicamente per il suo amore e per la sua bontà non peccare, né mormorare, né fare del male, né danno al prossimo, ma desiderare per il prossimo ciò che vorremmo facessero a noi; e desiderare che tutti si salvino; e amare e servire solo Gesù Cristo per quello che lui è, e non per timore dell'inferno. (Giovanni di Dio, Lettera alla duchessa di Sessa)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Giovanni di Dio salva dal fuoco scaturito nell'ospedale di Granada i suoi malati

L'ora della prova

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA

Colletta

O Dio, che per amor nostro hai digiunato quaranta giorni e quaranta notti; donaci la grazia di praticare l’astinenza per sottomettere il nostro corpo allo Spirito; affinché possiamo sempre essere docili alle tue buone ispirazioni di giustizia e santità, per tuo onore e gloria. Tu che vivi e regni con il Padre e lo Spirito Santo, unico Dio, nei secoli dei secoli. Amen

Letture

2 Cor 6,1-10; Mt 4,1-11

Commento

Gesù viene preparato al suo ministero con il battesimo al Giordano, dove riceve la testimonianza del Padre, e con le tentazioni nel deserto, dove viene sospinto dallo Spirito. È questa una tappa obbligata anche per noi; infatti quanto più grandi saranno le manifestazioni della grazia nel nostro cammino spirituale, tanto più forti saranno le prove che seguiranno per mantenerci nell'umiltà. Così ammonisce il libro del Siracide: "Figlio, se ti presenti per servire il Signore, prepàrati alla tentazione" (Sir 2,1). 

Gesù ha accettato di essere tentato facendosi carico della nostra fragilità; ma se il tentatore aveva trionfato sul primo Adamo, è sconfitto da Cristo, il secondo Adamo, che ha liberato l'umanità schiava del peccato. Egli, infatti, "proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova" (Eb 2,18) e "non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato" (Eb 4,15). 

Vi è un parallelo tra i quaranta giorni di Gesù nel deserto e i quarant'anni di peregrinazioni di Israele prima di entrare nella terra promessa; con il soggiorno di quaranta giorni di Mosè sul Monte Sinai e del profeta Elia - restauratore della Legge - sul Monte Oreb. Gesù è colui che ripara le infedeltà alla prima alleanza, ma anche il legislatore del nuovo patto, esteso all'intera umanità. 

Le tentazioni sono presentate nel Vangelo di Matteo nella forma di una disputa rabbinica; sia il diavolo che Gesù citano passi delle Scritture, il primo in maniera ingannevole, mentre Gesù ne svela il senso autentico. Possiamo difenderci dalle insidie del Maligno con la parola di Dio, ma solo se viene letta con fede, alla presenza di Cristo.

Con la prima tentazione Satana cerca di mettere a repentaglio la relazione dell'uomo con Dio, insinuando che questi non è Padre o non è un Padre che desidera il bene dei suoi figli. Non esorta Gesù a pregare il padre affinché trasformi le pietre in pane ma affinché le trasformi egli stesso. L'uomo è tentato in questo modo quando rompe la propria relazione con Dio e pensa di poter confidare unicamente in se stesso; ogni volta che cade in una sorta di "pensiero magico", pensando di poter modificare la realtà con l'ideologia, la scienza, la tecnica, gli idoli del suo tempo.

Con la seconda tentazione il diavolo pone Gesù in cima al Tempio di Gerusalemme, il luogo più santo della città santa e lo esorta a chiedere a Dio un prodigio che susciti ammirazione. Ma Gesù rifiuta, perché ha spogliato se stesso della propria potenza divina facendosi simile agli uomini, per insegnare la mansuetudine, l'umiltà, il servizio vicendevole.

Nella terza tentazione Satana offre a Gesù i regni di questo mondo, di cui egli è principe, ma un principe spodestato. Nel tempo che lo separa dal compimento della storia, l'uomo è tentato di disconoscere l'autorità di Dio, sottomettendosi al padre della menzogna. Ma il Maligno è stato vinto dall'incarnazione e dalla croce di Cristo, e il suo potere è limitato a ciò che la volontà di Dio gli concede di fare, fino al giorno in cui il Figlio tornerà sulla terra per prendere possesso del suo regno.

Luogo spaventoso per la sua desolazione, il deserto è luogo in cui ci si può avventurare solo se sospinti dallo Spirito, il quale ci chiama a questa esperienza per educarci alla lotta e metterci davanti alla nostra fragilità. Restando saldi nella fede che Cristo ha sconfitto il nemico e combatte con noi potremo trionfare sulla tentazione e gustare il pane del cielo amministrato dagli angeli.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 7 marzo 2025

Perpetua e Felicita, prime martiri cristiane e la concezione dell'aldilà nella chiesa antica

Le chiese cattolica, anglicana, luterana e veterocattolica celebrano oggi la memoria di Perpetua e Felicita, giovani martiri cristiane a Cartagine nell'anno 203.
Perpetua e Felicita facevano parte di un gruppo di catecumeni imprigionati a Cartagine durante la persecuzione di Settimio Severo. La loro Passio è uno dei testi più commoventi dell'antichità cristiana. Essa ci rivela la consapevolezza con cui i martiri si preparavano a ricevere la morte: secondo la loro stessa testimonianza, infatti, la fonte della loro forza e della loro fierezza non era altro che il Cristo che viveva e soffriva con loro e in loro.
Perpetua, giovane di famiglia patrizia, era madre di un bambino ancora in fasce quando fu arrestata. Felicita, invece, che era una schiava, era incinta. Tre giorni prima del martirio Felicita diede alla luce una bambina e mentre soffriva nel travaglio del parto, un carceriere le disse: «Se ora soffri così, cosa farai quando sarai gettata alle fiere?». Ma essa rispose: «Adesso sono io che soffro, ma là sarà un altro a soffrire per me dentro di me, perché anch'io ora soffro per lui».
Perpetua, a sua volta, quando ricevette il battesimo in carcere scrisse: «Lo Spirito di Dio mi ha ispirato di impetrare dall'acqua nient'altro che la saldezza della carne nelle sofferenze del martirio». Morirono martiri a Cartagine nel 203. La loro popolarità fu subito enorme, e i loro nomi aprono l'elenco dei martiri nominati nel Canone romano.

Il racconto della Passio di Perpetua e Felicita

La Passio che racconta del martirio è ritenuta dagli studiosi immediatamente successiva agli eventi. Un tempo attribuita a Tertulliano è, invece, oggi attribuita ad un cristiano anonimo della comunità di Cartagine.
Il racconto si compone di tre parti. La prima è una relazione fatta forse da un diacono o da un notaio della Chiesa di Cartagine sui compagni di prigionia e di martirio della santa; la seconda, che è quella scritta dalla stessa martire Perpetua, contiene il suo diario durante la prigionia; la terza espone il racconto del suo martirio, fatto da quello stesso che scrisse la prima parte. E questa ultima parte si chiude con la testimonianza preziosa che la seconda parte fu scritta di propria mano dalla stessa Perpetua. In questa descrizione viene narrato tutto ciò che accadde dal momento della cattura di lei e degli altri cristiani fino al giorno del martirio; e contiene il racconto delle visioni da lei avute durante la sua prigionia.

Nella prima di queste visioni, dopo la solita formula et ostensum est mihi hoc, Perpetua ci racconta di avere visto una scala lunga fino al cielo, attorniata da armi diverse e custodita da un dragone. Essa non aveva coraggio di salire, ma Satiro, suo compagno, le fece animo e subito salì e giunse in un bellissimo giardino, dove vide un vecchio venerando con capelli del tutto bianchi, che stava mungendo. Appena che la vide, le fece cenno di avvicinarsi, e poi che essa si fu avvicinata, il vecchio le diede un pezzetto di latte coagulato (sicit buccella) che essa ricevette a mani giunte sulle labbra, mentre tutti gli altri personaggi che si trovavano in quel giardino dicevano: Amen. Dopo di che Perpetua dice di essersi svegliata e di esserle rimasta in bocca una dolcezza che mai aveva provato. Queste ultime parole contengono una allusione evidente all'Eucaristia.

«Dopo alcuni giorni da questa visione, -prosegue essa a dire -, mentre stavamo tutti a pregare, sfuggì dalle mie labbra il nome di Dinocrate, nome di mio fratello minore morto da poco all'età di sette anni per un cancro sulla faccia. Io, prosegue, mi meravigliai come fino allora non mi fossi mai ricordata di lui e me ne pentii, e tutti insieme ci ponemmo a pregare per lui. Poco dopo ebbi un'altra visione: e vidi Dinocrate che usciva da un luogo tenebroso, tutto pallido in volto con sopra una terribile ferita che lo deformava. Egli era tutto mesto ed abbattuto, e andava qua e là vagando inquieto come chi soffre una gran pena. Fra me e lui v'era una profonda divisione, cosicché io non poteva aiutarlo in nessun modo. In quello stesso luogo dove egli stava vi era pure una fontana e pareva che Dinocrate avesse un'ardente sete poiché cercava di bere ma non poteva, perché l'orlo della vasca era molto alto ed egli invece piccolo di statura. Allora capii che egli si trovava in luogo di pena. E così mi svegliai e pensai subito al fratello che soffriva, ma confidai che le mie preghiere fossero a lui di sollievo; e subito ci ponemmo a pregare per lui sino a quando ci portarono all'anfiteatro in una nuova prigione per aspettare il giorno in cui si celebrava la festa di Geta figlio dell'imperatore». La terza visione avvenne dopo alcuni giorni dall'altra ed è la seguente: «Mi si presentò dinanzi il medesimo luogo dell'altra volta, però interamente trasformato, risplendente di luce e in ameno giardino; e Dinocrate allegro e contento che saltava qua e là vestito di candide vesti. La fontana di quel giardino aveva l'orlo molto abbassato e in essa Dinocrate continuamente si rinfrescava (et vidi Dinocratem refrigerantem), mentre sul margine della fontana stessa vi era una fiale d'oro ripiena di acqua. Allora, conclude Perpetua, mi ridestai e compresi che Dinocrate era stato tolto dalla pena e che godeva la beatitudine eterna».

Certamente in tutta l'antica letteratura cristiana non abbiamo un altro documento che parli più chiaramente della fede in uno stato ultraterreno di espiazione, delle preghiere per il suffragio delle anime dei defunti e della validità di queste preghiere.


Fermati 1 minuto. Non c'è digiuno senza condivisione

Lettura

Matteo 9,14-15

14 Allora gli si accostarono i discepoli di Giovanni e gli dissero: «Perché, mentre noi e i farisei digiuniamo, i tuoi discepoli non digiunano?». 15 E Gesù disse loro: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto mentre lo sposo è con loro? Verranno però i giorni quando lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno.

Commento

Alcuni discepoli di Giovanni insieme ai farisei sono protagonisti di una discussione sul digiuno con Gesù. Poco prima si erano rivolti ai suoi discepoli chiedendogli perché il loro maestro stava prendendo il pasto con pubblicani e peccatori. Adesso si rivolgono a Gesù stesso per riprenderli. Prima avevano cercato di mettere i discepoli contro il maestro, adesso il maestro contro i discepoli. Un modo di agire che non può certo venire dallo Spirito, e che tradisce piuttosto la tendenza a dividere e seminare discordia.

Gesù risponde facendo propria la stessa similitudine che aveva utilizzato Giovanni Battista, il quale si era definito "amico dello sposo" (Gv 3,29). Il digiuno è un segno di lutto e in quel momento di gioia in cui Gesù sta proclamando il regno dei cieli sarebbe inopportuno, proprio come sarebbe fuori luogo in occasione di un pranzo di nozze. Il digiuno è riferito al tempo in cui Gesù non sarà più con i discepoli, che è il tempo della chiesa. 

Gesù ha spiegato il modo in cui si deve digiunare nel suo discorso sul monte (Mt 6,16-18): privatamente, profumandosi la testa e lavandosi il volto, affinché solo il Padre che vede nel segreto possa dare la sua ricompensa. Tale pratica viene così interiorizzata e perde la connotazione legalistica che aveva assunto presso i farisei. Ma quali sono le nozze di cui parla Gesù definendosi "lo sposo"? Sono quelle tra il Salvatore e i peccatori. Matteo, il pubblicano convertito, lo ha compreso in prima persona, organizzando un banchetto per Gesù. 

Il profeta Isaia ci dice qual è il digiuno che Dio valuta di più: "Non consiste forse nel dividere il pane con l'affamato?" (Is 58,7). Cristo è colui che sazia la nostra fame di Dio, il nostro più profondo desiderio di amore, che il mondo con i suoi "cibi" non può soddisfare. Se digiuniamo in certi momenti non è per guadagnare meriti e rispettare dei precetti in maniera farisaica, ma per condividere con Dio e con il prossimo i nostri beni, il nostro affetto, il nostro tempo. 

Dicendo qualche "no" a noi stessi, come l'apostolo Paolo, trattiamo un po' duramente il nostro corpo e il nostro spirito, esercitandoci non come chi corre senza mèta (1Cor 9,24-27), ma ben sapendo che lo scopo di ogni pratica ascetica è di fare spazio a Dio e ai fratelli nel nostro cuore.

Preghiera

La nostra anima ha fame e sete di te Signore. Guarda la nostra povertà e vieni a visitarci con la tua grazia. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 6 marzo 2025

Fermati 1 minuto. Rinunciare a sé per trovare Dio

Lettura

Luca 9,22-25

22 «Il Figlio dell'uomo, disse, deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, esser messo a morte e risorgere il terzo giorno».
23 Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua.
24 Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà. 25 Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?

Commento

In quel "deve" (v. 22) con cui Gesù si riferisce alla sua passione è racchiuso il piano di salvezza di Dio per l'umanità che si attuerà con la sua morte e risurrezione. Gesù si rivolge "a tutti" (v. 23), con un invito universale a seguirlo, rinnegando se stessi, per trovare la propria vita in Dio. 

Il paradosso evangelico è proprio questo: nella misura in cui ci doniamo, la nostra esistenza si arricchisce di senso. Ogni giorno (v. 23) in cui moriamo a noi stessi per fare spazio allo Spirito che ci rinnova e ci rende strumenti della grazia è un giorno trascorso bene. 

Se non tutti siamo chiamati a testimoniare Cristo fino al martirio certamente nessuno può essere suo discepolo senza obbedire ai suoi comandamenti, mettersi al servizio del prossimo e testimoniare il suo nome al momento opportuno e inopportuno (2 Tim 4,2). Solo così potremo dire con Gesù "Per questo mi ama il Padre; perché io depongo la mia vita per riprenderla poi" (Gv 10,17). 

Il mondo va in direzione completamente opposta: ci spinge a un desiderio bulimico di appropriazione e prevericazione che non sazia mai i nostri bisogni più profondi. Ma Gesù non ci mette in croce contro la nostra volontà, fa appello alla nostra libertà: "Se qualcuno vuol venire dietro a me..." (v. 23) 

La meta finale è la risurrezione; la croce diventa allora da strumento di supplizio via di accesso a un'umanità trasfigurata, che ha riconquistato l'immagine e somiglianza con Dio.

Preghiera

Donaci, Signore, il coraggio di metterci generosamente al servizio tuo e del nostro prossimo; affinché rinunciando a noi stessi possiamo trovare te, che sei l'autore di ogni bene. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 5 marzo 2025

Mercoledi delle ceneri. L'inizio di un cammino di conversione

L'origine del Mercoledì delle ceneri è da ricercare nell'antica prassi penitenziale. Originariamente il sacramento della penitenza non era celebrato secondo le modalità attuali. Nel corso dei secoli si è avuta una triplice evoluzione della disciplina penitenziale: "da una celebrazione pubblica ad una celebrazione privata; da una riconciliazione con la Chiesa, concessa una sola volta, ad una celebrazione frequente del sacramento, intesa come aiuto-rimedio nella vita del penitente; da una espiazione, prima dell'assoluzione, prolungata e rigorosa, ad una soddisfazione, successiva all'assoluzione".

La celebrazione delle ceneri nasce a motivo della celebrazione pubblica della penitenza, costituiva infatti il rito che dava inizio al cammino di penitenza dei fedeli che sarebbero stati assolti dai loro peccati la mattina del giovedì santo. Nel tempo il gesto dell'imposizione delle ceneri si estende a tutti i fedeli e la riforma liturgica ha ritenuto opportuno conservare l'importanza di questo segno.

La teologia biblica rivela un duplice significato dell'uso delle ceneri.

1 - Anzitutto sono segno della debole e fragile condizione dell'uomo. Abramo rivolgendosi a Dio dice: "Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere..." (Gen 18,27). Giobbe riconoscendo il limite profondo della propria esistenza, con senso di estrema prostrazione, afferma: "Mi ha gettato nel fango: son diventato polvere e cenere" (Gb 30,19). In tanti altri passi biblici può essere riscontrata questa dimensione precaria dell'uomo simboleggiata dalla cenere (Sap 2,3; Sir 10,9; Sir 17,27).

2 - Ma la cenere è anche il segno esterno di colui che si pente del proprio agire malvagio e decide di compiere un rinnovato cammino verso il Signore. Particolarmente noto è il testo biblico della conversione degli abitanti di Ninive a motivo della predicazione di Giona: "I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo. Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere" (Gio 3,5-9).

La semplice ma coinvolgente liturgia del mercoledì delle ceneri conserva questo duplice significato che è esplicitato nelle formule di imposizione: "Ricordati che sei polvere, e in polvere ritornerai" e "Convertitevi, e credete al Vangelo". 

Preghiera (dal Book of Common Prayer)

Dio onnipotente ed eterno, che non disprezzi nulla di quel che hai creato, e perdoni i peccati di tutti i penitenti; crea in noi un cuore contrito, affinché noi, riconoscendo i nostri peccati e la nostra miseria, possiamo ottenere da te, Dio di misericordia, la perfetta remissione e il perdono. Per Gesù Cristo nostro Signore.