Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

venerdì 12 dicembre 2025

Fermati 1 minuto. Il sapiente operare di Dio

Lettura

Matteo 11,16-19

16 Ma a chi paragonerò io questa generazione? Essa è simile a quei fanciulli seduti sulle piazze che si rivolgono agli altri compagni e dicono: 17 Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto. 18 È venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e hanno detto: Ha un demonio. 19 È venuto il Figlio dell'uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. Ma alla sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere».

Commento

Gesù riprende con derisione i farisei, accusandoli di comportarsi in maniera infantile, scontenti sia se invitati a gioire del suo ministero - quando si siede a tavola con i peccatori per riconciliarli a Dio - sia se chiamati a fare penitenza per i propri peccati - con riferimento all'invito alla conversione e alla penitenza di Giovanni Battista.

Ogni credente rischia di cadere in questo atteggiamento, quando lamenta un eccessivo lassismo da parte dei fratelli o, al contrario, quando giustifica le proprie infedeltà ritenendo il vangelo troppo esigente.

Certi credenti vorrebbero seguire Cristo soltanto alle nozze di Cana; altri coltivano una fede prigioniera del rigore legalistico, ma più comunemente l'atteggiamento diffuso è di indolenza, come quella di bambini annoiati seduti in una piazza. 

Gesù ci chiama a conciliare la gioia dell'annuncio di salvezza e la necessità di seguirlo prendendo la nostra croce. Questo significa partecipare in pienezza al mistero pasquale, alla morte e risurrezione di Cristo, accogliendolo nella sua interezza. 

Non siamo noi a dover giudicare le vie con cui Dio agisce sugli uomini per favorirne lo sviluppo spirituale, perché sebbene lo stesso Dio operi in tutti (1 Cor 12,6), alcuni sono chiamati da una voce che grida nel deserto, altri con parole di consolazione e di gioia. Come ammonisce l'Ecclesiaste c'è "un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per fare lutto e un tempo per danzare" (Eccl 3,4). Dio sa come trattare ciascuno di noi, talvolta parlando dal tuono sul monte Sinai e talaltra esortandoci dolcemente dal monte Sion.

Perghiera

Dio di giustizia e di misericordia, concedici di vivere sempre più in profondità il mistero battesimale, per sovrabbondare della tua grazia, nella predicazione del tuo vangelo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 10 dicembre 2025

Le sei perfezioni nel buddhismo. Introduzione alle pāramitā

Le pāramitā, sei insegnamenti fondamentali, sono descritte nella vastità della cultura classica del buddhismo come percorsi di profonda trasformazione interiore. Queste pratiche rappresentano le sei grandi vie per il raggiungimento di quella che viene definita la "riva opposta" (pāramitā deriva infatti dal sanscrito pāram, "oltre", e itā, "andato"). La riva opposta simboleggia lo stato di satori o illuminazione, ovvero la condizione più elevata del nostro stato di coscienza, libera dalle catene dell'illusione e della sofferenza. In questo senso, le pāramitā sono viste come il motore che muove la pratica spirituale e conduce l'essere umano verso tale realizzazione, fungendo da ponte tra la condizione ordinaria di esistenza e il risveglio completo.

La struttura delle pāramitā

Le sei pāramitā vengono elencate e distillate in un sistema coerente che riassume i comportamenti, le azioni, i pensieri, l'energia, la meditazione (concentrazione) e la saggezza che scaturisce e promuove tutto questo. Ciascuna di esse rappresenta non solo una virtù da coltivare, ma una vera e propria perfezione (pāramitā significa letteralmente "perfezione" o "trascendenza") da incarnare nella propria esistenza.

1. Dana (generosità)

Rappresenta la generosità, la disponibilità, il dare amore e protezione senza aspettativa di ritorno. Dana è la perfezione del dare con il cuore, un atto che trascende la semplice elemosina materiale per abbracciare il dono del tempo, dell'ascolto, della presenza e persino del dharma (l'insegnamento spirituale). La generosità autentica nasce quando il donatore, il ricevente e il dono stesso si dissolvono in un unico atto privo di ego, dove non c'è più chi dà e chi riceve, ma solo il fluire naturale della compassione.

2. Śīla (virtù/moralità)

È la virtù o la moralità che governa le nostre azioni. Śīla è la perfezione dell'etica, che si manifesta in una vita vissuta in accordo con la nostra vera natura non egoica. Non si tratta di seguire rigidamente precetti esterni, ma di permettere che la nostra condotta spontanea rifletta la purezza innata della mente risvegliata. Quando l'ego si dissolve, l'azione giusta emerge naturalmente, senza sforzo né calcolo.

3. Kṣānti (pazienza)

Include la pazienza, la tolleranza, l'accettazione, la sopportazione e l'imperturbabilità di fronte alle avversità. La capacità di dimorare pienamente nel momento presente e l'accettazione profonda di ciò che accade sono considerati il substrato fondamentale, insieme agli altri, per accedere alle nostre qualità migliori. Questa pāramitā è talvolta definita anche la perfezione della presenza radiosa, poiché nella pazienza autentica risplende una forza interiore incrollabile. Kṣānti non è passività rassegnata, ma attiva accoglienza della realtà così com'è, senza resistenza mentale.

4. Vīrya (energia)

È l'energia instancabile, la diligenza gioiosa, il vigore e lo sforzo perseverante nella pratica. Vīrya rappresenta l'entusiasmo che non conosce scoraggiamento, la determinazione che ci sostiene nei momenti di difficoltà. È quella forza vitale che ci permette di continuare a praticare anche quando i frutti della pratica non sono immediatamente visibili, mantenendo viva la fiamma del risveglio.

5. Dhyāna (concentrazione)

È la concentrazione profonda, la contemplazione e lo zen. Dhyāna riassume gli stati meditativi della nostra mente e non può essere tradotta semplicemente come meditazione (zazen), poiché indica l'intera gamma di assorbimenti contemplativi che vanno dalla concentrazione focalizzata alla presenza aperta e non duale. È in dhyāna che la mente si stabilizza, si purifica e diventa capace di penetrare la vera natura della realtà.

6. Prajñā (saggezza)

È la saggezza trascendente, che non è soltanto la somma delle cinque pāramitā precedenti, ma è essa stessa una pratica fondamentale per il loro sviluppo e realizzazione. Prajñā è la visione penetrante della vacuità (śūnyatā), la comprensione diretta dell'interdipendenza di tutti i fenomeni e della natura illusoria dell'ego. Senza prajñā, le altre perfezioni rimangono incomplete; con prajñā, ogni azione diventa espressione della natura di Buddha.

Le pāramitā sono profondamente interconnesse: ognuna aiuta a produrre lo stato mentale successivo, e a sua volta sostiene e rafforza lo stato mentale che l'ha prodotta. Formano così un cerchio virtuoso di crescita spirituale, dove ogni perfezione si alimenta reciprocamente con le altre.

Cambiamento, impermanenza e natura umana

Il punto nodale di tutta la vita e della pratica spirituale è il cambiamento e la difficoltà che incontriamo nell'accoglierlo pienamente. Il paradosso della nostra esistenza è che viviamo nell'impermanenza continua (anitya), eppure resistiamo ostinatamente a riconoscerla. La legge universale dell'impermanenza fa sì che non vi sia una sola cellula del corpo che non stia continuamente lavorando e modificandosi, non un singolo pensiero che permanga identico, non un'emozione che non fluisca e si trasformi. L'unica cosa che resta apparentemente immobile è il pensiero cristallizzato della nostra mente riguardo a chi e cosa siamo, quella narrazione dell'io che costruiamo e difendiamo con ogni mezzo.

Il desiderio di non attuare cambiamenti, specialmente negli stati di coscienza, va contro la natura stessa dell'esistenza. L'impermanenza è una delle tre caratteristiche fondamentali dell'esistenza (trilakṣaṇa) su cui il Buddha ha maggiormente insistito nei suoi insegnamenti ed è un concetto essenziale per comprendere la realtà. Non è una minaccia o una malattia da cui proteggersi con l'attaccamento, ma è l'unica via per l'evoluzione e la crescita dell'essere umano. Il cambiamento è, in realtà, la nostra natura più profonda e autentica. Praticare una via spirituale significa mettersi consapevolmente di fronte al proprio cambiamento, accoglierlo, danzare con esso anziché resistergli.

Le pāramitā, in questo contesto, possono servire come strumenti di comunicazione e trasformazione più profondi di mille parole, offrendo una bussola pratica per un cambiamento di rotta nell'essere umano e nella società. Incarnare le perfezioni significa allinearsi al flusso naturale dell'impermanenza, trasformando la resistenza in apertura e la paura in fiducia.

Pratica esterna e pratica interna

Le sei pāramitā possono essere suddivise in due gruppi principali, anche se tutte concorrono armoniosamente alla pratica completa e nessuna può essere veramente separata dalle altre.

Le prime tre perfezioni: la dimensione relazionale

Le prime tre perfezioni—generosità (dana), etica (śīla) e pazienza (kṣānti)—sono di aiuto al nostro cambiamento soprattutto nell'interrelazione con gli altri. Esse riguardano maggiormente la relazione con l'ego e con il mondo esterno, con il tessuto sociale in cui siamo immersi. Il loro scopo è superare i confini rigidi del nostro io e del nostro ego per aprirsi alla dimensione dell'interconnessione e della compassione universale. La messa in pratica di queste pāramitā può essere simultaneamente pratica verso gli altri e realizzazione del proprio sé autentico, poiché nell'atto di dare, di agire eticamente e di essere pazienti, dissolviamo progressivamente le barriere illusorie tra sé e altro.

Queste tre perfezioni ci insegnano che la liberazione personale non può essere separata dal benessere degli altri, che il nostro risveglio si manifesta necessariamente nella qualità delle nostre relazioni e azioni nel mondo.

Le seconde tre perfezioni: la dimensione interiore

Il secondo gruppo di perfezioni—energia (vīrya), concentrazione (dhyāna) e saggezza (prajñā)—riguarda più specificatamente la pratica interiore e il nostro stato di coscienza. Ad esempio, vīrya è definita la perfezione dell'entusiasmo gioioso al cambiamento. Questo non significa essere gioiosi della sofferenza in quanto tale, ma essere entusiasti del cambiamento stesso, cioè della possibilità di trasformare la sofferenza attraverso la pratica. Si tratta di uno sforzo gioioso e vigoroso che ci permette di trovare la strada per uscire dalla sofferenza (duḥkha), mantenendo viva la motivazione anche nei momenti più bui.

Dhyāna ci offre lo spazio interiore di quiete e chiarezza in cui possiamo osservare la mente senza identificarci con i suoi contenuti, mentre prajñā illumina la vera natura di ciò che osserviamo, rivelando la vacuità dell'ego e l'interdipendenza di tutti i fenomeni.

Per realizzare queste qualità, è cruciale unire l'ascolto della mente concettuale a quello del cuore (shin in giapponese), inteso come la mente consapevole e realizzata, la mente-cuore indivisa. L'ascolto che viene dal cuore permette agli stati illuminati e illuminanti della mente di manifestarsi liberamente, non più impediti dalla mente oscurata dall'ego e dalle sue proiezioni distorte. Quando mente e cuore si unificano nella pratica, le pāramitā cessano di essere concetti astratti e diventano la nostra esperienza vissuta.

Realizzare la propria natura migliore

La pratica spirituale ha l'obiettivo fondamentale di rendere l'invisibile visibile, di rimuovere i veli che oscurano la nostra vera natura e permettere alla nostra essenza migliore di riapparire e splendere. Adottare i cambiamenti che portano verso le pāramitā non è andare contro qualcosa di estraneo o imposto dall'esterno, ma al contrario, riprendere la via naturale del cambiamento verso la nostra reale essenza, quella natura di Buddha (buddhata) che è sempre stata presente, solo temporaneamente velata dall'ignoranza e dall'illusione.

Quando si è seduti nella pratica formale dello zazen, l'assorbimento totale nella postura, nel respiro e nella presenza fa sì che non si stia più praticando qualcosa di separato da noi, ma si sia completamente quello che si pratica. Il praticante e la pratica si unificano in un'esperienza non duale. In modo analogo, la saggezza (prajñā) trascina corpo e mente risvegliati alla loro migliore natura di esseri umani, e questo stato risvegliato produce a sua volta saggezza in un ciclo virtuoso e autoalimentante.

Vivere le pāramitā è una pratica per vivere al meglio la nostra vita in relazione con gli altri, aiutandoli e alleviando la loro sofferenza, anziché isolarsi in uno stato di benessere privato e solitario. Il bodhisattva, l'essere illuminato che ritarda la propria liberazione finale per aiutare tutti gli esseri senzienti, incarna perfettamente questo ideale. Il cambiamento nobile e lodevole, che è parte integrante della nostra natura più profonda, porta inevitabilmente a una nobiltà di vita e di coscienza, a una dignità che nasce dall'allineamento con ciò che siamo veramente.

Le pāramitā offrono quindi una dinamica naturale di trasformazione, capace di riflettere su sé stessa in modo autoriflessivo e di interpretare e trasformare la società, manifestando la propria natura di Buddha—che non è un'entità lontana e irraggiungibile, un ideale astratto riservato a pochi eletti, ma è la nostra naturale essenza, la nostra eredità spirituale comune. Questa natura risvegliata è sempre stata qui, semplicemente in attesa che rimuovessimo le nuvole che ne oscuravano la luminosità.

Nel praticare le sei perfezioni, non stiamo costruendo qualcosa di nuovo o acquisendo qualità che ci mancano, ma stiamo semplicemente ricordando e risvegliando ciò che abbiamo sempre posseduto. Le pāramitā sono il sentiero di ritorno a casa, alla nostra vera natura, e ogni passo su questo sentiero è già, in sé, un atto di risveglio.

- Rev. Dr. Luca Vona

Fermati 1 minuto. Una gioiosa partecipazione all'opera divina

Lettura

Matteo 11,28-30

28 Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. 29 Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. 30 Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero».

Commento

Dopo aver proclamato la beatitudine degli umili, ai quali vengono rivelati il Cristo e il suo Regno, Gesù esorta gli affaticati e gli oppressi ad andare a lui. Costoro, paradossalmente, troveranno ristoro ponendo su di sé il giogo del Signore. Ma come è possibile essere liberati dall'oppressione sottomettendosi e vincolandosi?

Questa, purtroppo, è l'impressione che al giorno d'oggi molti hanno della fede: semplicemente una religione, ovvero un insieme di norme da rispettare, spesso con fatica. Il rischio di un cristianesimo legalista è di replicare l'oppressione generata dal modo di spiegare la legge degli scribi e dei farisei, dei quali Gesù afferma: «Legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito» (Mt 23,4). 

Gesù invita all'obbedienza alla sua parola, che dà ristoro perché dona la salvezza, mediante la giustificazione e la santificazione. La vita del credente è più che una religione: è un'esperienza di comunione con Dio. E poiché  Dio è il creatore di tutto e colui che governa tutto, essere "sottomessi a lui" significa regnare con lui, in lui. 

La vera religione è lontana tanto dall'arbitrio individualistico quanto dalla sterile precettistica; è un'esperienza di liberazione e di gioiosa partecipazione all'opera divina.

Gesù ci libera da tutto ciò che ci appesantisce lungo la via della salvezza; anche da quei pesi inutili che spesso noi stessi ci siamo caricati sulle spalle. Come ai suoi apostoli egli ci dice: «Venite... riposatevi un po'» (Mc 6,31).

Preghiera

Guidaci, Signore, verso la libertà dei figli di Dio; affinché attraverso la mitezza e l'umiltà possiamo regnare con te e trovare ristoro. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 9 dicembre 2025

Fermati 1 minuto. Il cuore umano di Dio

Lettura

Matteo 18,12-14

12 Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e una di queste si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti per andare in cerca di quella smarrita? 13 E se gli riesce di ritrovarla, in verità vi dico che egli si rallegra più per questa che per le novantanove che non si erano smarrite. 14 Così il Padre vostro che è nei cieli vuole che neppure uno di questi piccoli perisca.

Commento

Con la parabola della pecora smarrita Gesù restituisce un'immagine di Dio che richiama la compassione su cui si fondava già l'antica alleanza con il popolo di Israele, tante volte infedele, eppure sempre cercato e riconciliato con sé. Questa apprensione di Dio, per la salvezza del suo popolo, e che si estende, come già annunciato dai profeti dell'epoca post-esilica, a tutte le nazioni, trova compimento in Cristo. Nel buon pastore la misericordia di Dio trova un cuore umano in cui pulsare e discende nelle valli, spesso oscure, in cui risiede l'umanità smarrita.

Dio si rallegra per la salvezza del suo gregge non solo in quanto moltitudine, ma di ogni singola sua pecora. L'immagine di questo animale non deve indurci a considerare il credente come una creatura passiva nelle mani di Dio. La possibilità di allontanarci da lui segna in maniera chiara la cifra della nostra libertà personale. Ma al contempo il nostro bene si realizza all'interno di una relazione con Dio, il quale chiama ciascuno di noi per nome (Gv 10,3), riconoscendo dunque la nostra unicità. È lui che ci guida su pascoli erbosi (Sal 22,2). È lui che ci fa riposare al sicuro (Sal 4,9). L'atteggiamento del buon pastore è per i credenti un modello della sollecitudine che questi devono mostrare verso ogni uomo alla ricerca della via che conduce alla salvezza.

Preghiera

Signore, tu ci chiami per nome. Apri le nostre orecchie alla tua voce, affinché possiamo rallegrarci con te della nostra salvezza. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 7 dicembre 2025

Le mie parole non passeranno

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA SECONDA DOMENICA DI AVVENTO

Colletta

Dio Onnipotente, donaci la grazia di allontanare da noi le opere delle tenebre e rivestirci dell’armatura della luce, ora nel tempo di questa vita mortale, in cui il tuo figlio Gesù Cristo è venuto a visitarci in grande umiltà; affinché nell’ultimo giorno, quando ritornerà nella sua gloriosa maestà, per giudicare i vivi e i morti, possiamo risorgere alla vita immortale, per lui che vive e regna, con te e con lo Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Amen

Signore santo, che hai ispirato tutte le Scritture affinché fossero scritte per la nostra edificazione; concedici di ascoltarle, leggerle, memorizzarle, apprenderle e interiorizzarle, affinché mediante il conforto e la pazienza donati dalla tua santa parola, possiamo abbracciare e mantenere la beata speranza della vita eterna, che ci hai donato nel nostro Salvatore Gesù Cristo. Amen.

Letture

Rm 15,4-13; Lc 21,25-33

Commento

La mèta ultima della storia è la lode unanime del Padre, in comunione con il Figlio, nello Spirito Santo. Il vangelo, annunciato negli ultimi tempi, testimonia questa aspirazione affinché tutte le voci compongano un'armonia simile a quella di molti strumenti, ciascuno diverso nel suo timbro, ma tutti accordati nell'azione comune.

Questo ideale va realizzato non solo nella preghiera; Dio infatti, avendo accolto a sé i peccatori, senza distinzione di giudei e di pagani, di ricchi, e di poveri, d'ignoranti, e di dotti, deve essere glorificato da tutti, con la parola e con l'azione conforme al vangelo. Come Cristo ha accolto noi, per la gloria del Padre, noi dobbiamo accogliere ogni uomo, superando le offese, le antipatie, il divario di opinioni.

Nella chiesa militante convivono deboli e forti nella fede. È una realtà inevitabile giacché non si può pretendere lo stesso grado di conoscenza e di esperienza cristiana nei fanciulli e negli uomini fatti. Se tutti devono tendere all'unità nella fede, all'altezza della statura perfetta di Cristo (Ef 4,13), a questo ideale non si giunge d'un tratto né per imposizione d'autorità, ma in forma graduale e progressiva. Intanto il bambino e il giovane hanno il loro posto legittimo nella famiglia, al pari dell'uomo maturo e dell'anziano.

Nella fede in Cristo ciascuno può trovare la pienezza della gioia e la capacità di coltivare relazioni interpersonali virtuose; come testimonia Paolo: "Il Dio della speranza vi riempia d'ogni allegrezza e pace nel vostro credere" (Rm 15,13). E l'Apostolo aggiunge: "mediante la potenza dello Spirito Santo": non il semplice sforzo umano, ma la potenza dello Spirito di Dio può alimentare nel cristiano la fiamma della speranza e della carità fraterna.

Cristo viene sulle nubi, la sua manifestazione vittoriosa si realizza per mezzo dello Spirito, consolidando il regno del vangelo sulla terra, e favorendo la sua propagazione fra tutti i popoli mediante l'opera dei suoi inviati.

Ma guai a quella chiesa in cui l'istituzione soffoca la potenza dello Spirito. La comunità può essere forte là dove le coscienze individuali si esprimono e respirano nella ricerca di una relazione personale con Dio, spinte da un senso profondo di responsabilità.

Nella predicazione di Gesù troviamo il richiamo ad affidarci alla parola di Dio, ad aggrapparci ad essa come àncora di salvezza nelle acque turbinose dell'esistenza umana. Questa la sua promessa, che alimenta la speranza del cristiano: "i cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno" (Lc 21,33).

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 6 dicembre 2025

Dizionario della Musica Anglicana. Jean Coulthard

Jean Coulthard (1908-2000) rappresenta una figura pionieristica nella musica canadese del ventesimo secolo. Il suo vastissimo catalogo di oltre 350 opere comprende tutti i generi tradizionali, ma la sua produzione sacra e corale costituisce un aspetto particolarmente significativo della sua eredità artistica.

La formazione con Ralph Vaughan Williams al Royal College of Music di Londra (1928-1929) lasciò un'impronta indelebile sul suo approccio alla musica sacra. L'influenza del maestro inglese emerge nelle opere devozionali di Coulthard, dove il lirismo si combina con un linguaggio armonico contemporaneo accessibile ed emotivamente diretto.

"A Prayer for Elizabeth" per archi (1953), commissionata dalla CBC per l'incoronazione della Regina Elisabetta II, rappresenta un momento emblematico del suo stile maturo: forme tradizionali fuse con armonie politonali cromaticamente arricchite. Il pezzo riflette l'eredità di Vaughan Williams nella sua solennità contemplativa.

"Music to St. Cecilia" per organo e archi, nominata al Juno Award nel 1993, celebra la patrona della musica bilanciando serenità meditativa e gioiosa celebrazione. Dimostra la maestria nell'orchestrazione e la sensibilità nel trattamento dell'organo.

"Threnody", elegia per la madre scomparsa nel 1933, trasforma il dolore personale in espressione universale. Concepita per la Christ Church Cathedral di Vancouver, rivela la comprensione della funzione catartica della musica sacra.

La musica sacra di Coulthard si distingue per un lirismo contemporaneo unito a un'introspezione meditativa spesso associata alla geografia della Columbia Britannica. Le sue opere sono accessibili e profonde, radicate nella tradizione ma non anacronistiche.

Il suo approccio armonico privilegia una tonalità ampliata piuttosto che serialismo o atonalità. Questa scelta mantiene una capacità comunicativa diretta che favorisce l'uso liturgico e concertistico. Come docente presso l'Università della British Columbia per 26 anni, formò generazioni di compositori, contribuendo a creare una tradizione compositiva canadese.

La sua musica sacra rappresenta un contributo duraturo al repertorio canadese, offrendo opere che uniscono profondità spirituale e mestiere raffinato, mantenendo la fiducia nella capacità della musica di elevare lo spirito attraverso la bellezza.