COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA V DOMENICA DI QUARESIMA
Colletta
Ti
supplichiamo, Dio Onnipotente, di guardare misericordioso al tuo popolo;
affinché possa essere sempre custodito e guidato dalla tua grande bontà, sia
nel corpo che nell’anima. Per Gesù Cristo, nostro Signore. Amen.
Letture:
Eb 9,11-15; Gv 8,46-59.
Il Vangelo di oggi costituiva in passato la
domenica di Quaresima detta “di Abramo”, perché è questo protagonista
del’Antico Testamento il soggetto delle contestazioni mosse a Gesù da alcuni
giudei.
Abramo rappresenta l’uomo della fede per
eccellenza; avanti negli anni, Dio gli appare, invitandolo a lasciare la
regione di Ur e facendogli una triplice promessa: una terra in cui scorrono
latte e miele, simbolo di benessere e abbondanza; una discendenza, sebbene egli
abbia 75 anni e sua moglie sia sterile; la benedizione, tramite lui, a tutti i
popoli della terra.
Abramo è l’uomo della fede senza riserve, che
arriva a mostrasi disposto a sacrificare il proprio figlio a Dio, in cui ripone
la sua fiducia più totale. Come afferma il filosofo danese Soren Kierkegaard,
nella sua opera Timore e Tremore,
Abramo rappresenta la fede come fondamento della religiosità e dell’etica,
perché “si mantiene lontano da quei confini in cui la fede svanisce nella
riflessione” e, dunque, nella filosofia.
La riflessione, l’etica, la morale, non sono per
il vero cristiano il fondamento della fede, ma scaturiscono dalla fede. Quando accade il contrario, cadiamo nello
stesso errore in cui caddero gli infervorati interlocutori di Gesù. La loro
religiosità era ormai sterile, basata su precetti e sul vano senso di
appartenenza alla “discendenza di Abramo”.
Noi cristiani corriamo lo stesso pericolo. La
nostra religiosità potrebbe porre pericolosamente le proprie fondamenta sulla
sabbia del “senso di appartenenza” all’istituzione ecclesiale, erroneamente
intesa come garanzia di salvezza; oppure potrebbe fondarsi su un devozionalismo
incapace di tradursi in azioni concrete di conversione e di carità verso gli
uomini; o ancora potrebbe scadere nel moralismo, nella ricerca di un “ricettario”
contenente ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, in una prospettiva puramente
“orizzontale”, incapace di cogliere il senso ultimo delle nostre buone opere”:
cioè Dio, che è capace di ispirarle, di sostenerle, e alla cui lode e gloria
dovrebbero essere finalizzate.
Ecco allora che non basta dire “siamo figli di
Abramo” (Gv 8,33.53), come non basta dire “siamo cristiani”. Non si tratta
semplicemente di credere a Gesù, e neanche di professarlo “Figlio di Dio”. Si
tratta di credere in Gesù. Credere in qualcuno è molto di più che credere a qualcuno. Credere in Gesù significa
essere capaci di affidarsi a lui, proprio come Abramo, padre di coloro che
credono, fu capace di affidarsi incondizionatamente a Dio. Credere in Gesù
significa riconoscerlo come il sommo sacerdote e l’unico mediatore (Eb 9,11.15),
che ci ha acquistato la redenzione eterna. È il Sangue di Cristo – richiamato
tre volte in tre versetti in Eb 9,12-14 – il fondamento della vera fede. È il
sangue di Cristo che vivifica la Chiesa e purifica “la nostra coscienza dalle
opere morte per servire il Dio vivente!” (Eb 9,14).
Il sangue di Cristo rappresenta al tempo stesso il
mistero eucaristico e il dono incondizionato di sé per amore del genere umano.
Il sangue di Cristo è il fondamento di una fede nella sola grazia di Dio, nella
sua promessa non di una terra da abitare, ma del suo intero Regno da ereditare.
È fede nella sua capacità di mantenere le sue promesse, oltre ogni nostro
dubbio e infedeltà. È anche fede che si traduce, in maniera tangibile, in
carità, in azioni feconde.
Il sangue di Cristo è al tempo stesso il mare in
cui affogare i nostri peccati, prefigurato dalle acque del Diluvio, e la linfa
vitale della Chiesa, Corpo mistico del Redentore.
È questo il senso corretto del Sola fide che dovrebbe costituire il cardine
della vita cristiana. Se la teologia e la morale, la riflessione su Dio e
sull’azione conforme alla sua volontà, sono una conseguenza, non un presupposto
della fede, dobbiamo tenere presente che la fede, biblicamente intesa, si fonda
sull’ascolto. È fides ex auditu.
Abramo fu prima di tutto uomo dell’ascolto, capace
di porgere l’orecchio a quanto Dio aveva da dirgli e di mettersi in cammino per
obbedire al suo volere. “Chi è da Dio, ascolta le parole di Dio; perciò voi non
le ascoltate, perché non siete da Dio” (Gv 8,47).
Mettiamoci, dunque, all’ascolto di Dio e
abbandoniamoci fiduciosamente a Lui; cerchiamo il tempo per fare silenzio
dentro e fuori di noi; per porre un freno alle “opere morte”, a quell’attivismo
che perde di vista l’orizzonte ultimo delle cose; per lasciare andare le false
sicurezze di una religiosità fondata sulla fede nelle nostre azioni e
devozioni, più che nell’opera straordinaria e incredibile che Dio può compiere
in noi.
Rev. Luca Vona