La
santificazione in Wesley come tema ecumenico
di Giancarlo Rinaldi*
Quale
ecumenismo?
Il termine “ecumenismo” ha acquisito significati in bilico tra la
“spiritualità” e la “politica”. I sinodi dei primi tre secoli cristiani non
ebbero una valenza ecumenica, erano limitati a circoscritti ambiti
territoriali. I concili convocati da imperatori, a far data da Costantino,
potevano invece dirsi ecumenici poiché l’auctoritas di chi li
voleva (e li presiedeva) era estesa a quel che si considerava l’ecumene tutta.
Oggi v’è un ecumenismo “di vertici” che vede protagonisti le guide delle
denominazioni, e v’è un ecumenismo “di base” quando sono i membri di Chiesa che
agiscono. Percorsi auspicabili ma parziali: è talvolta in agguato il desiderio
di “annessione” dell’interlocutore, oppure si celebra un momento di politica
ecclesiastica, oppure si nutre un vago sentimento d’affetto che relativizza le
identità.
Al cristianesimo antico era estranea la dimensione del dialogo che è frutto
della modernità. Posta una verità si faceva scaturire la condanna di ogni
pensiero diverso. La letteratura patristica ne è esempio1. Tra questo
atteggiamento e le moderne aperture v’è tutta una parabola di atteggiamenti
nella quale dovremo inserire il nostro Wesley e la sua “scuola”.
Se volessimo basarci sulle opere di Wesley2 per trarne spunti di
ecumeni- smo, inteso come sereno dialogo con la Chiesa cattolica, potremmo
considera- re il nostro compito immediatamente chiuso, e con bilancio negativo.
Nel suo sermone Catholic spirit3, che è del 1749, la Chiesa
cattolica non esce immune da implicite e indirette critiche. I suoi membri sono
chiamati “papisti”. È signi- ficativo il fatto che Wesley si esprima
esclusivamente parlando di “Chiesa di Roma” e lo fa prevalentemente per
dimostrare la perniciosità di insegnamenti con i quali, contraddicendo
l’insegnamento biblico, questa s’è allontanata del modello della Chiesa antica:
«Babylon the Great, the mother of harlots and abominations of the earth». Anche
nel caso di una dottrina che sembra prender le distanze dalla visione riformata
per aderire a quella cattolica (l’insegnamento della santificazione o
perfezione cristiana), Wesley evidenzia ciò che lo separa da Roma. Quando,
nella sua lettera del 1782 A Disavowal of Persecuting Papists,
prese le difese dei “papisti” invocando tolleranza, egli rimarcò che bisognava
stare in guardia affinché i seguaci di Roma non fossero messi in condizione di
recar danno a lui stesso o a chi consideravano eretici4. Tuttavia, siamo
persuasi che v’è spazio per parlare di una dimensione “ecumenica” del pensiero
di Wesley e della teologia e spiritualità che da lui deriva.
L’esercizio di ecumenismo più autentico consiste nel recuperare le radici
della fede, un patrimonio che più sta a monte della vicenda cristiana più è comune
a una molteplicità di denominazioni. Si tratta di darsi appuntamento nelle
pagine del Nuovo Testamento, fondamento di fede, poi nei testimoni di una
tradizione che non è canale parallelo alla rivelazione biblica, bensì la
fedeltà nei secoli esercitata al fine di trasmettere «la fede una volta per
sempre tramandata ai santi» (Giuda 3). Se l’ecumenismo è quello sforzo d’ogni
cristiano di proiettarsi alle origini della sua fede ne dedurremo che nessun
cristiano può sottrarsi alla qualifica di “ecumenico”. Un ecumenismo sincronico che
vede le varie Chiese avvicinarsi l’una all’altra non sarà mai così fecondo come
quello diacronico, che cioè consiste nel dirigersi di ciascuno
verso le comuni radici.
Wesley, dunque, non fu teologo “ecumenico” nel senso moderno del termine;
basti pensare alle sue confutazioni della dottrina “romana”, intesa come
cor-ruzione del cristianesimo degli antichi e anche alle sue dispute con
protestanti di tradizione calvinista. Eppure, a Wesley fu cara la
frequentazione dell’antica letteratura cristiana intesa come voce di una
cristianità ancora indivisa. È in quest’ultimo filone che dobbiamo cercare il
Wesley “ecumenico”. Così c’è lecito inserire anche i “figli” di Wesley
(metodisti, ma anche chiese di santità e movimento pentecostale) nell’avventura
del dialogo ecumenico.
Il sottovalutare l’importanza dei testi “patristici” è errore grave non
solo per lo storico ma anche per il semplice credente cristiano. Credere di
comprendere la Bibbia senza condizionamento alcuno è una pia illusione. Tra noi
moderni (anche ci si attiene al sola Scriptura) e quelle
pagine v’è una lunga tradizione di cui siamo portatori anche inconsapevolmente.
È difficile per l’uomo uscire dalla sua storia!
Wesley fece tesoro della letteratura degli antichi cristiani. Il cosiddetto
“argomento patristico”, che sarebbe stato tanto caro ai teologi del Movimento
di Oxford, per Wesley non era orpello di erudizione oppure strumento di
polemica, bensì testimonianza dei riecheggiamenti del Vangelo nella vita della
Chiesa. Specialmente per quanto riguarda la dottrina della santificazione
intesa come seconda opera della grazia o come immersione nello Spirito santo.
In Wesley l’autorità e l’incidenza dei testi
patristici è però subordinata a quella della pagina biblica che rimane il
binario unico sul quale scorre l’ortodossia e l’ortoprassi. La tradizione dei
Padri viene concepita da Wesley come la fedeltà con la quale gli antichi
testimoni della fede hanno attinto dalla Scrittura e ne hanno tramandato
l’insegnamento.
L’immersione
nello Spirito: tema patristico, tema wesleyano, tema ecumenico
In Wesley vi sono diverse espressioni per definire l’opera dello Spirito
santo. Questa varietà è spia della complessità di tale opera e della difficoltà
di esplicitarla. Santificazione, Perfezione cristiana, Amore reso perfetto,
Piena santificazione, Seconda benedizione; John Fletcher, in piena sintonia con
Wesley, avrebbe poi parlato anche di battesimo di Spirito santo: sono
espressioni che si riferiscono al precetto di Gesù: «Siate dunque perfetti come
è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48).
La teologia di Wesley andò modulandosi tra letture bibliche così come acca-
demiche, ma anche tra controversie ed esperienze vissute. Wesley non sistemò il
suo pensiero in un manuale avente carattere di sistematicità, ma lo espose
principalmente in sermoni, lettere e inni secondo che le circostanze lo
richiedevano.
L’esperienza di Aldersgate del 1738 aveva confermato Wesley nella
consapevolezza dell’esser salvato per grazia, ma non in quella di aver esaurito
il suo percorso di cristiano. Il rapporto con Dio non si esaurisce nella
cosiddetta “nuova nascita” (Gv 3,3), ma procede con un continuo
plasmarsi del carattere attraverso una lotta con l’“uomo vecchio” che ancora
può cedere alla tentazione del peccato. Da qui la distinzione tra il momento
della salvezza e quello successivo della santificazione; quest’ultimo è un
processo che inizia con la conversione e termina con la morte (1Cor 1,2; 1Pt 1,2).
Ma nel pensiero di Wesley c’è spazio anche per un’esperienza della
santificazione vissuta come puntuale “crisi”, come momento preciso in cui
lo Spirito compie la sua opera di purificazione del cuore rendendo la volontà
del cristiano conforme a quella del suo Signore, facendo sì che l’obbedienza
non sia più obbligo forzato bensì l’adempimento di un gradito dovere. L’opera
di Dio può dirsi ora “perfetta” non perché un individuo sia stato reso immune
da errori e imperfezioni, bensì nel senso che costui è stato fatto oggetto di
un piano di Dio che comprende anche la sua santificazione. “Perfezione
cristiana”, in senso wesleyano, non è la realizzazione di un individuo
umanamente perfetto e impeccabile, ma il pieno ed effettivo compimento di
un’opera di grazia.
Potrebbe presentarsi un’antitesi: l’esperienza della santificazione avviene
in un particolare momento (cioè è una “crisi”), oppure si sviluppa attraverso
un processo graduale, una tensione sempre in atto e mai compiuta? Gli eredi di
Wesley sono apparsi divisi tra coloro che sostenevano la gradualità dell’esperienza,
come nella grande maggioranza dei protestanti di tradizione riformata, oppure
il conferimento immediato di un dono, come nella teologia delle chiese di
santi- tà. Ma il contributo peculiare di Wesley consisté nell’enfasi sulla
seconda opera della grazia come crisi puntuale, anche se questa non poteva mai
considerarsi un punto d’arrivo ma era una tappa del pellegrinaggio cristiano.
Il fatto che la santità come processo graduale sia stato un patrimonio comune
al mainstream protestante ci spiega come mai la predicazione
wesleyana abbia accentuato la dottrina della “crisi”.
Inoltre: il credente era dichiarato santo o era
realmente fatto tale? Se si fosse trattato di predicare una
santità soltanto attribuita al peccatore (come nella visione riformata), non
sarebbe stato il caso di dar vita a un nuovo movimento. Non mancavano
confessioni di fede che illustravano il carattere forense della
giustificazione come della santificazione: il salvato rimane sempre peccatore
poiché Dio si limita a dichiararlo giusto e santo ma in realtà
egli non lo è. Per Wesley la santificazione non è solamente imputata,
ma è realmente impartita, come nella tradizione cattolica5. Wesley
operava una distinzione tra il peccato volontario e i peccati involontari (infirmities).
Da questi ultimi, che caratterizzano l’essere umano in quanto tale, dovremmo
sempre stare in guardia con umiltà e vigilanza. In virtù della santificazione,
viene invece estirpata la radice amara del peccato, inteso come naturale e
consapevole avversione dell’uomo a Dio. E ciò avviene in questa vita: è
l’intervento estemporaneo di Dio, ma non esclude un successivo processo di
crescita. Wesley raccomandò di non guardare, come a strumento di liberazione
dal peccato, alla morte (come nella tradizione riformata) né al purgatorio
(come nell’insegnamento cattolico): né morte né purgatorio possono liberarci
dal peccato, ma la grazia di Dio che opera mentre siamo vivi.
Quale coronamento di questa dottrina della santificazione reale del
cristiano, collochiamo l’insegnamento della santità sociale.
Quest’ultima non deriva da una sensibilità di tipo “politico” per la quale,
come superficialmente s’è voluto intendere, il nostro anticiperebbe
atteggiamenti di tipo “laburista”. Nella storia è sempre il prima che
spiega il poi e mai il contrario, inoltre una santità effettivamente impartita
non può non palesarsi con opere che si proiettano nella dimensione esterna,
quella sociale. Il credente vede in chi patisce l’immagine di Gesù sofferente,
e interviene poiché ogni santità è “sociale”. Coloro che ab- binano l’impegno
caritatevole dei metodisti all’azione del successivo laburismo dicono il vero,
ma è stato quest’ultimo a trarre ispirazione dal primo.
La definizione di un’identità
avviene grazie a polemiche e controversie. Era facile, per i detrattori del
nostro, far leva su ciò che sembrava una presunzione e far caricature del
metodista come uomo che si riteneva “perfetto”, “senza pecca- to”. Un coacervo
di critiche indusse Wesley nel 1766 a raccogliere i suoi pensieri sul tema
dando alle stampe A Plain Account of Christian Perfection, From the
Year 1725 to the Year 1765. L’autore rivendicava la sua coerenza negli anni
ed esponeva quello che sarebbe stato il “manifesto” metodista. Pochi e ben
chiari i concetti cardine: 1. l’opera dello Spirito si realizza per fede; 2.
avviene istantaneamente; 3. si compie in vita. Non si tratta di una sinless
perfection, poiché il credente sarà sempre tentato e fallibile; dunque la
perfezione non stava nell’uo- mo ma nell’opera di Dio che purifica il cuore,
rende santi, cancella l’ego anti- co e vi sostituisce una brama di vivere
secondo la volontà celeste. Se Dio aveva compiuto per noi il
sacrificio della croce che reca salvezza, ora, con una seconda benedizione,
compiva in noi un’altra opera che avrebbe consentito al
credente di adempiere al comandamento «Siate santi come io sono santo» (Lev 19,2).
Nelle epistole paoline chi aveva risposto alla chiamata di Gesù ed era entrato
a far parte di una comunità era chiamato santo (Rm 1,7; 1Cor 1,2; 2Cor 1,1; Ef 1,1; Fil 1,1
etc.). Wesley ritenne che questo non era solo un modo di dire,
bensì il modo di essere del credente.
La santificazione non è il risultato delle virtù esercitate in grado eroico
dal cristiano, ma è un dono della grazia. Se Wesley si avvicina alla teologia
cattolica, perché parla di una santità effettiva e non soltanto dichiarata,
cioè ammette la trasformazione reale del carattere, non per questo ricorre alla
categoria tipica- mente cattolica del merito. Qui Wesley si palesa fedele
figlio della Riforma6.
I “Padri” di
Wesley
Per Wesley la dottrina e l’esperienza della santificazione erano un
patrimonio della cristianità antica da attualizzare e tramandare. Quali sono
stati i suoi auctores? La ricerca parte da uomini di grande pietà
dei secoli xvii e xviii e risale all’antica letteratura cristiana. In
quest’ultimo aspetto sta il volto più ecumenico dei movimenti che dal
riformatore di Epworth ebbero in un modo o nell’altro a scaturire. Come ha
messo in evidenza T. A. Campbell7, bi- sogna valutare quanta influenza
patristica è stata esercitata grazie alla lettura diretta dei testi e quanta
sia stata filtrata da tutta una letteratura religiosa che nel secolo xvii aveva
fatto tesoro delle antichità cristiane. Il tema è stato più volte al centro
dell’interesse di sodalizi di accademici specialisti quali il Wesley
Studies Working Group e la Wesleyan Theological Society.
L’incremento che si è avuto dagli anni Ottanta del secolo scorso degli studi su
Wesley e il cristianesimo antico secondo il Campbell è da considerarsi sintomo
odierno della ricerca dell’autentica identità metodista.
Sarebbe troppo lungo elencare le letture di Wesley per valutare volta per
volta le influenze che queste hanno esercitato sul suo pensiero. Per compiere
questo lavoro bisognerebbe partire dagli anni dell’infanzia del nostro il quale
ricordava commosso come «From a child I was taught to love and reverence the
Scriptures, the oracles of God; and, next to these, to esteem the primitive
Fathers, the writers of the first three centuries». Altra pista di ricerca
consiste nell’individuare un filone di continuità dalla Chiesa antica fino a
Wesley per quanto concerne la dottrina della perfezione cristiana8.
Il rapporto tra Wesley e gli antichi non si colloca in un vacuum storiografico
ma attesta una tendenza di teologi anglicani i quali non si limitarono a
mediare tra Riforma e Chiesa romana ma desiderarono collegarsi in modo diretto
alla tradizione dei primi secoli cristiani9. La testimonianza patristica era
elemento immunizzante contro il radicalismo delle correnti puritane e le
deviazioni della Chiesa di Roma che si appropriava di quelle voci10.
Durante gli anni oxfordiani il nostro attinse principalmente dal The
Rule and Exercises of Holy Living (1650) del vescovo anglicano J.
Taylor e dal De imitatione Christi. Quest’ultimo alimentò il
desiderio di far nascere l’uomo “nuovo” sulle ceneri di quello “vecchio” nel
contesto di un’esperienza spirituale profonda. Tuttavia, l’enfasi che il testo
poneva sulla mortificazione e la sofferenza mal gli sembrava conciliarsi col
pensiero riformato che individuava nella sola grazia il propellente della vita
cristiana.
Più influenti furono poi i due scritti di William Law: A Practical
Treatise Upon Christian Perfection (1726) e il successivo A
Serious Call to a Devout and Holy Life (1729). Qui già troviamo un
assunto della pietà wesleyana: il ruolo imprescindibile della grazia divina
nella trasformazione del “carattere” del cristiano, cioè l’adesione del
credente al volere di Dio nei sentimenti e nelle opere di santità. Noto sin da
ora che a sostegno della dottrina della perfezione cristiana il Law ricorre a
citazioni scritturistiche ed esempi di vita ma v’è carenza di argo- menti
tratti dall’antica letteratura cristiana, più utilizzati da Wesley.
Significativa è anche la sintonia tra la teologia
“perfezionista” di Wesley e quella dell’ecclesiastico puritano e accademico di
Cambridge John Preston (1587-1628), esposta nei suoi sermoni editi
col titolo The New Covenant, or The Saint’s Portion: A treatise Unfolding
the All-Sufficiency of God, Man’s Upright- ness, and the Covenant of
Grace. Qui ravvisiamo la dottrina del carattere inte- riore della purezza
connessa alla santificazione, una purificazione del cuore e dei desideri che
porta a una totale consacrazione a Dio. Si enfatizza il carattere di gratuità
di questo dono. Tuttavia per Preston il processo era da considerarsi sempre
incompleto se non al momento della morte. Da un sermone dell’anglica- no Robert
Gell (1595-1665) Wesley, nel 1741, fu persuaso della possibilità di
una perfezione cristiana come purificazione dell’intenzione profonda del cuore:
in tal senso il credente era liberato dal peccato, se con questo termine
indichiamo una consapevole e volontaria trasgressione alla legge di Dio.
Un profondo impatto ebbe su Wesley
la lettura del trattato erudito di storia del cristianesimo antico di William
Cave (1637-1713) Primitive Christianity: Or, the Religion of the
Ancient Christians in the First Ages of the Gospel. Si confuta- vano le
false accuse circolanti a carico dei cristiani, poi v’era una disamina dei loro
costumi; inoltre lo studio del secolo quarto del quale interessava
particolarmente la triangolazione tra imperatori, Chiesa e sopravvivenze
pagane. Ogni affermazione dell’autore veniva suffragata da puntuali citazioni
della letteratura sia cristiana antica sia classica. Tutta questa
erudizione non valeva a nascondere un sentimento di nostalgica ammirazione che
guardava a quell’epoca come a un modello di virtù svanita11. Insomma,
Wesley non fu un unicum nell’età sua. Egli s’inserì in quella
tradizione arminiana che fu propria di alti ecclesiastici della High Church
quali William Laud (1573-1645), Herbert
Thorndike (1598-1672) e Peter Heylyn (1600- 1662). Secondo costoro il
ritorno alle fonti dei riformati doveva estendersi anche ai testi patristici
per modellare una Chiesa in linea di continuità con quella dei primi secoli:
nessuna verità di rilievo poteva mancare nel repertorio degli antichi e, di
contro, ogni insegnamento nuovo poteva considerarsi per ciò stesso falso. Da
ciò l’affermazione di Wesley:
But whatever doctrine is new must be
wrong; for the old religion is the only true one; and no doctrine can be right
unless it is the very same “which was from the beginning”12.
Anche di autori francesi Wesley ebbe a nutrirsi:
Madame Guyon (1647- 1717) e François Fénelon (1651-1715), ad esempio;
da loro attinse l’esperienza dell’amore interiore che vincola l’anima a Cristo;
se in questi autori prevale l’aspetto individualista e “aristocratico”
dell’esperienza, nel nostro la realiz- zazione è proposta alla totalità del
popolo cristiano e va vissuta nel tessuto sociale, anche il più difficile.
Oltre che dalle opere di tali quietisti Wesley at- tinse da scritti di storici
d’orientamento gallicano come L’Epistola in qua de moribus et vita
christianorum in primis Ecclesiae saeculis agitur di Jean Fronteau,
scritta nel 1660; o il trattato Moeurs des Chrétiens scritto
da Claude Fleury nel 1682, che fu sua lettura durante il soggiorno in Georgia.
La fruizione diretta da parte di
Wesley di auctores patristici ebbe luogo nei primi anni in
modo personale ed edificatorio: è l’epoca in cui le sue lacrime sgorgavano alla
lettura di Macario. Diversa fu la situazione quando si trattò di plasmare il
gruppo dei suoi predicatori. Allora fu il caso di ancorare l’esperienza del
nascente metodismo alla vita della Chiesa nei suoi momenti esemplari. Il
ricorso ai Padri si rese opportuno quando circostanze indotte dalle esigenze
organizzative o polemiche inducevano a definire una dottrina. Due esempi.
1.Quando,
nel 1777, aprì la sua Chapel a Londra, nella City Road, dopo aver fatto
collocare lo spazioso altare al centro precisò che tutto era stato svolto nel
solco di una tradizione ecclesiastica della quale ricordò con precisione i testimoni13.
2.Quando fu
nella necessità di ordinare presbiteri per quella che sempre più stava
diventando una vera e propria “Chiesa”, dichiarò che la forma epi-scopale era
in sintonia con la Scrittura e i tempi apostolici, tuttavia ribadì che questa
non era una norma cogente e che Edward Stillingfleet nel suo Irenicum14 aveva
dimostrato che né Cristo né i suoi apostoli avevano racco-mandato una
particolare forma di organizzazione ecclesiastica.
Wesley
attingeva direttamente alle Scritture; ma la rilettura dell’antica lette-
ratura cristiana poteva giovare nei casi in cui l’interpretazione di un testo
biblico non appariva univoca o quando bisognava palesare un processo di
traviamento del modello antico.
Wesley non
vagheggiò in modo acritico l’epoca antica della Chiesa. Fu la lettura di
Tertulliano e di Cipriano15 a persuaderlo che la sua condizione non era
migliore di quella attuale. Ancora più critico era il discorso relativo all’età
postcostantiniana. Se nei primi tre secoli la Chiesa presentava tratti di luminosa
esemplarità, successivamente l’imperatore Costantino “autoproclamatosi cri-
stiano” aveva dato la stura a un processo di corruzione. In ciò il nostro
appare in linea con il generale giudizio che in ambito protestante si diede su
Costantino16. Così Wesley si espresse nel suo sermone The Mystery of
Iniquity:
The whole essence of true religion, was struck in the
fourth century by Constantine the Great, when he called himself a Christian,
and poured in a flood riches, honours, and power, upon the Christians; more
especially on the Clergy17.
Wesley
stesso tracciò una mappa delle sue auctoritates patristiche
nel 1777, pronunciando il sermone On Laying the Foundation of the New
Chapel, near the City Road, London:
Questa è la
religione della chiesa primitiva, dell’intera chiesa nella più pura delle
epoche [...]. È chiaramente espressa anche (even) nel poco che rimane di
Clemente Romano, Ignazio e Policarpo. La si ravvisa, in modo più sommario,
negli scritti di Tertulliano, Origene, Clemente Alessandrino e Cipriano. La si
trova anche nel se- colo quarto, nelle opere di Crisostomo, Basilio, Efrem Siro
e Macario. Non sarebbe difficile chiamare in causa un nugolo di testimoni che
attestano la stessa ove mai questo argomento fosse contestato sia pure da una
persona che abbia la più modesta familiarità con le antichità cristiane18.
Sono chiamati in causa testimoni del
cristianesimo «in the purest ages»: Clemente Romano, Ignazio, Policarpo; poi
gli africani Tertulliano e Cipriano; gli alessandrini Origene e Clemente e
anche («even»), autori del quarto secolo (Crisostomo, Basilio, Efrem Siro,
Macario). Questa concessione s’intende alla luce della convinzione di una
generale decadenza della Chiesa a seguito della svolta costantiniana. Gli
autori postcostantiniani sono infatti tutti asceti legati al movimento
monastico. Wesley riteneva che in un contesto di generale secolarizzazione era
proprio l’esperienza monastica che indicava la via più genuinamente cristiana,
quella della “morte al mondo” e del rinnovamento delle vite in un percorso di
perfezione cristiana.
Wesley ricorse a puntuali citazioni patristiche nel contesto della polemica
con la Chiesa di Roma19. In A Roman Catechism Faithfully Drawn out of
the Allowed Writings of the Church of Rome. With a Reply thereto20 la
letteratura patristica è costantemente chiamata in causa a confutazione delle
dottrine della Romish Church. Qui, infatti, Wesley ricorre ai
seguenti autori, citandoli con accuratezza e con un preciso proponimento21:
90
Tertulliano: la sufficienza delle Scritture;
90-1 Agostino: contro le
dottrine non desunte dalla Bibbia;
91 Cirillo:
affinché ogni dottrina debba essere dimostrata sulla scorta della Bibbia;
92 Basilio:
le Scritture come antidoto alle tradizioni umane;
92 Girolamo:
l’esclusione degli apocrifi (deuterocanonici);
93 Crisostomo:
ogni individuo ha diritto ad accedere direttamente alle Scritture;
93 Agostino:
non bisogna proibire la lettura della Bibbia;
94 Agostino
e Clemente Alessandrino: la Chiesa trae il suo insegnamento esclusivamente dalle
Scritture;
98-9 Cipriano,
Gregorio di Nazianzo ed Epifanio: sulla beatitudine di chi crede post
mortem, contro il purgatorio;
100
Agostino: contro l’insegnamento del Limbus Patrum;
103 Ambrogio:
solo Dio può ricevere le preghiere.
105 Origene:
bisogna pregare Dio solo (e non vari altri mediatori);
107 Epifanio:
contro le deviazioni del culto mariano;
109 Giustino:
contro il culto delle immagini;
111 Agostino:
contro il culto delle immagini;
118 Agostino,
Origene, Tertulliano, Eusebio da Cesarea: sulla terminologia relativa alla Cena
del Signore che non assevera la dottrina della transustanziazione;
124 Ambrogio:
contro il potere sacerdotale di rimettere i peccati;
127 Agostino
e Cipriano: sulla terminologia sacramentale per dimostrare che il matrimonio non
è un sacramento;
128 Vincenzo da Lerino: il suo
insegnamento sulla tradizione smentisce la dottrina della Chiesa di Roma.
Un carattere del tutto particolare
presenta un suo scritto del 4 gennaio 1749: A Letter to the Reverend
Dr. Conyers Middleton. Occasioned by His Late “Free Inquiry”. È un ampio
saggio occasionato dallo scritto di questo ecclesiastico pervaso da spiriti
razionalistici la cui tesi centrale era che Cristo non avrebbe compiuto nessun
miracolo, e così i suoi apostoli; inoltre gli antichi Padri del- la Chiesa non
avrebbero attestato l’esistenza di prodigi per l’età loro. Ne derivava un
paradossale rovesciamento della tesi tradizionale secondo la quale la storia
della Chiesa avrebbe conosciuto un progressivo processo di allontana- mento da
un esordio glorioso: al contrario l’epoca della Chiesa antica sareb- be stata
caratterizzata da confusione. L’autore agitava la sua tesi volendone trarre
un’arma per impedire «the late increase of Popery in this kingdom». Se questo
fine poteva sorridere a Wesley non poteva dirsi lo stesso degli argomenti che
il Middleton invocava. Il nostro volle impegnarsi a scardinare il trattato del
suo avversario basandosi su fonti scritturali e patristiche; proprio allora
egli aveva terminato la sua traduzione dei Padri apostolici per
la Christian Library e a questi testi gli fu facile attingere
al fine di dimostrare il carattere carismatico e miracolistico del più antico
cristianesimo22.
Perché l’insegnamento di Wesley sulla santificazione sembra convergere più
con quello cattolico che con quello riformato? La risposta è piuttosto
semplice: perché Wesley ha modellato la sua teologia e la sua esperienza non
solo sulle Scritture ma anche su Padri della Chiesa i quali sono a monte anche
delle formulazioni cattoliche.
Wesley volle riportare in auge «the religion of the primitive church, of
the whole church in the purest age»23. Provava la correttezza delle sue
dottrine sulla scorta delle Scritture e poi, ove necessario, invocava
l’antichità di quegli
stessi insegnamenti come attestato di veridicità24. Quando andò formandosi
la squadra dei suoi ministri di culto egli, nel suo Address to the
Clergy del 1756, raccomandò lo studio dei “Padri” ritenendo che la
lettura della Bibbia doveva essere inserita nel solco della loro tradizione
esegetica. Egli parlava «chiefly of those who wrote before the Council of
Nice», ma includeva poi i citati autori successivi: Crisostomo, Basilio,
Girolamo, Agostino e, «above all the man of a broken heart», Efrem Siro.
Aggiungeva, inoltre, raccomandandone lo studio ai ministri di culto, le opere
di Girolamo e Ambrogio25
Il ricorso alla patristica era utile per illuminare pagine bibliche di non
agevole interpretazione ma valeva anche come conferma della bontà di alcune
dot- trine, come attestazione di ciò che non era detto nella Bibbia ma che
neanche da questa era condannato, come conferma di tratti identitari del
metodismo26. Il tema è svolto da Wesley nel suo The Advantage of the
Members of the Church of England, over those of the Church of Rome dove
accusa quest’ultima di essersi ribellata al principio secondo il quale ogni
dottrina doveva essere provata dalla Scrittura; questa ribellione avrebbe poi
indotto a preferire la tradizione ecclesia- stica alla Bibbia. Wesley trovava
parole di condanna anche per l’atteggiamento di gran parte dei protestanti
riformati i quali guardavano dall’alto in basso quan- to era stato tramandato
dall’antichità cristiana.
Wesley lesse i suoi “Padri” dapprima traendovi un’ispirazione edificante27;
quindi per reperirvi le conferme alle dottrine che erano il cuore della sua
missione28: la condizione di peccato che permane anche nel credente, l’azione
della grazia che realmente riabilita, l’opera della santificazione come
“perfezione cristiana”.
Clemente Alessandrino fu d’ispirazione per Wesley. Con
questo autore il cristianesimo “ortodosso” emerse in Egitto dalle nebbie del II
secolo durante il quale era prevalso lo gnosticismo. Gli gnostici, specie se di
tendenza valentiniana, distinguevano vari livelli di professione cristiana,
andando dal più semplice (ilico), attraverso un grado medio (psichico)
fino a pervenire alla “perfezione” spettante a loro stessi, gli pneumatici.
Clemente spogliò questa graduazione del suo carattere esoterico e parlò di
cristiano “perfetto” in riferimento all’opera di redenzione, santificazione e
ammaestramento operata da Cristo e dallo Spirito nel credente.
Wesley, a Oxford, ebbe tra i suoi
maestri quel dotto vescovo John Potter che, nel 1715, aveva curato l’edizione
dell’opera omnia di Clemente Alessandrino. L’ideale di un cristiano “perfetto”,
che Clemente aveva esposto principalmente negli Stromata, era
musica per le orecchie di Wesley: le tappe della vita cristiana gli sembravano
tracciate e culminavano nell’esperienza dello “gnostico”, redento dalla grazia,
plasmato dallo Spirito e illuminato da una conoscenza che era, anche e
principalmente, acquisizione per esperienza capace di indurre cambia- mento:
una teoria che comprendeva tutte le facoltà dell’anima.
Per valutare il rapporto tra Wesley e Clemente ci gioviamo di due testi del
1739. Il primo è una poesia, On Clemens Alexandrinus Description of a
Perfect Christian, inclusa poi nella raccolta di Hymns and Sacred
Poems. V’è poi il trat- tato The Character of a Methodist. Qui
il ritratto del credente metodista ricalca quello del cristiano “gnostico” di
Clemente, specialmente come delineato negli Stromata. Wesley stesso
lo confessa annotandolo il 5 marzo del 1767 nel suo Journal quando
dice di aver attinto dal settimo libro dell’opera dove si contrappone allo
gnostico eretico, gonfio di presunzione, quello che è cristiano, la cui
conoscenza riguarda Dio ed è compiuta nel cuore. Egli stesso ammise però che
successivamente dovette prendere le distanze dall’impostazione ellenistica e
intellettualistica dell’Alessandrino29. Molti anni dopo, nel 1767, scrivendo
all’editore del Lloyd’s Evening Post, Wesley espresse la sua
ammirazione per Clemente lasciando però nello stesso tempo comprendere i limiti
della stessa:
Five or six
and thirty years ago much I admired the character of a perfect Christian drawn
by Clement Alexandrinus. Five or six and twenty years ago a thought came into
my mind of drawing such a character myself, only in a more scriptural manner,
and mostly in the very words of Scripture30.
Non tutto poteva essere accettato dall’Alessandrino che perseguiva un dise-
gno apologetico rivolto ai pagani acculturati e presentava la ricerca dell’uomo
prima di Cristo come un percorso illuminato dal Logos che era Cristo. In questo
ampio affresco la filosofia greca era teatro dell’azione del Logos protrepticos.
Poi v’era l’azione del Logos paedagogus e quindi del
Logos dida- skalos. Insomma, le tre tappe esposte nel trittico di
Clemente: Pedagogo, Pro- treptico, Stromata:
bisognava recuperare la lezione di Platone e l’etica degli stoici. Ma Wesley
non aveva l’esigenza apologetica di Clemente. Per lui quel paganesimo
filosofico era un tentativo dell’uomo di acquisire una qualche idea di Dio, un
tentativo impossibile a causa dell’innata generale corruzione dell’uomo
per cui di Dio si poteva parlare solo in sede di rivelazione scrit- turale.
Inoltre un processo di maturazione del credente attraverso l’esercizio della
virtù e lo spogliarsi dalle passioni era inaccettabile poiché sembrava ledere
la gratuità della grazia.
Agostino d’Ippona è stato forse l’autore più citato da
Wesley. Ne ammirava il tormento interiore anche se non esitò a denunciarne il
carattere polemico, passionale e ipercritico verso i suoi avversari, come nel
caso di Pelagio. Così leggiamo nel suo sermone del 178431 The Wisdom of
God’s Counsels. Particolarmente acuto è il rilievo secondo il quale la
polemica contro Pelagio avrebbe contribuito a caratterizzarlo negativamente
attribuendogli l’insegnamento secondo il quale le buone opere avrebbero
procacciato la salvezza di chi le compiva.
I Padri postniceni frequentati da
Wesley sono stati esclusivamente autori monastici che, in un periodo di
generale declino della spiritualità cristiana, era- no impegnati a condurre gli
asceti, cioè chi già era credente, verso sempre più alti livelli di perfezione.
Gli elenchi di vizi e delle tentazioni, le drammatiche lotte tra la vecchia
natura e l’immagine di Dio davano l’idea dell’urgenza di un’opera di ulteriore
purificazione per grazia. Ecco perché le Omelie di Macario32 e
gli scritti di Efrem Siro occuparono posti di riguardo nella biblioteca
patristica del nostro.
Nelle pagine
del primo erano chiari due concetti fondamentali per Wesley: 1.era necessaria un’azione dello Spirito che avesse rimosso il peccato che
affliggeva il credente; 2. tale peccato era da intendersi come un orientamento
del cuore. Il recupero di queste due premesse costituiva la base per quella che
sareb- be stata la dottrina e l’esperienza della perfezione cristiana. Inoltre
l’impianto metodista acquisiva così un carattere di ampia “ecumenicità”
includendo l’insegnamento di un Padre della Chiesa orientale. Wesley non recepì
passivamente quanto leggeva nelle Omelie. Qui il fine dell’opera
divina è la theiosis (o apothe- iosis, in
italiano: indiamento), cara alla mistica orientale, estranea alla
spiritualità protestante. Essa, in termini semplici, è una graduale
partecipazione alla natura di Dio che ha come esito la restaurazione della
condizione adamitica prima della caduta, anzi ancor più di ciò: una vera e
propria divinizzazione dell’uomo. Que- sto termine “tecnico” non passò nel
lessico di Wesley il quale, per esprimere la sostanza di tale esperienza,
ricorse al più biblico “santificazione”. Ebbe fortuna, invece, l’altra
designazione macariana di coloro che sono santificati: i “battezzati di
Spirito santo”33, una definizione che Wesley, pur non ricorrendovi, incluse
nella sua edizione delle omelie di cui diremo tra poco. Questo approccio
critico e selettivo di Wesley si palesa anche nei tagli che egli operò a quelle
pagine di Macario nelle quali si parlava delle buone opere e degli sforzi
dell’asceta come strumenti d’acquisizione della grazia. Qui il riformatore
evangelico si attenne al sola fide. Wesley fece propria di Macario
la denunzia del peccato nel credente e l’esigenza di eliminarlo, ma a ciò fece
seguire una soluzione evangelica in linea con la Riforma34.
Wesley pubblicò buona parte delle Omelie di Macario nel
primo volume della sua Christian Library35. Nella prefazione egli
esplicitò le sue idee su questo testo selezionando ciò che gli sembrava in
sintonia con il Vangelo: l’interiorità della ricerca e della presenza di Dio,
lo zelo nel ricercare questa presenza ed esse- re conformi a Cristo e poi il
carattere concreto e quotidiano di tale esperienza, insomma la vittoria sul
mondo! Buona parte delle convinzioni di Macario, però, fu lasciata dov’era e
non ha alterato il tracciato evangelico della via salutis configurato
da Wesley36 che apprezzò l’ammaestramento di Macario sulla necessità di
farsi modellare dallo Spirito vincendo l’uomo vecchio, ma lo trasse fuori dalle
solitudini dell’antico Oriente cristiano e lo collocò nel bel mezzo
dell’affollata società inglese dell’epoca sua.
Nel corpus delle Omelie attribuite
a Macario si è voluto rilevare, sulla scorta degli studi di Werner Jaeger,
l’incidenza della teologia di Gregorio di Nissa; da qui il dibattito
sull’influenza di questo cappadoce su Wesley in tema di santificazione. È la
nota tesi di un autorevole studioso quale Albert Cook Outler37 oggi però
ampiamente contestata38. Questo, in realtà, fu uno dei Padri più vicino
a Wesley, sia tramite un’influenza indiretta sia tramite la fruizione
diretta di al- cune sue opere. Concludiamo elencando con Ted A.
Campbell39 cinque eredità dell’antico monachesimo che Wesley seppe
apprezzare e far proprie:
1.la santità come conquista, acquisizione reale che Wesley desiderò rende-
re traguardo raggiungibile a chiunque fosse disposto a ricevere quest’opera
della grazia;
2.la vita religiosa intesa come ricerca della perduta immagine di Dio;
3.la concezione di una comunità di credenti disciplinata;
4.l’interesse per un’analisi delle “infermità” spirituali connessa alla
“terapia” delle stesse;
5.il concetto stesso e l’esperienza di un processo di
maturazione definito “perfezione cristiana”.
Gli “eredi”
di Wesley: metodisti, chiese di santità, pentecostali
La predicazione di Wesley fu la riscoperta di due dottrine ed esperienze
della primitiva cristianità: la conversione come “nuova nascita” e la dottrina
della perfezione cristiana definita da Wesley stesso la ragion d’essere del suo
movimento, il “Grand depositum for wich Methodists were chiefly raised up”.
Parleremo con proprietà di metodismo/metodisti solo in presenza dei due
sopracitati elementi dottrinali ed esperienziali. Né è corretto affermare che
queste siano da considerarsi le caratteristiche del solo primitivo metodismo
poiché i mutamenti sopraggiunti le rendono ora obsolete. Se è vero, come è
vero, che la santificazione secondo Wesley non è invenzione metodista ma
“grande deposi- to” sin dalla primitiva cristianità e, prima ancora, dalle
pagine stesse del Nuovo Testamento, possiamo allora concludere che abbandonare
questa dottrina e questa esperienza significa atrofizzare le radici che
alimentano la Chiesa. Il negligere la santificazione, o anche il farla
coincidere con un sia pur encomiabile impegno di tipo sociale significa non
solo non intendere la propria identità, ma dilapidare un patrimonio da vivere e
da trasmettere.
Wesley desiderò che a guida del movimento sorto sull’onda della sua
predicazione avrebbe dovuto impegnarsi John William
Fletcher (1729-1785), uno svizzero di origini ugonotte trapiantatosi
in Inghilterra. La motivazione poggia- va sulla santità dei costumi e
sull’ortodossia del suo insegnamento, elementi che emergono dalla biografia che
Wesley gli dedicò. Il desiderio di Wesley s’infranse a causa
dell’inaspettata morte del Fletcher, ma costui può considerarsi non solo il
teologo sistematore del pensiero di Wesley ma anche il vero ponte di collegamento
tra questo e le successive sue fruttificazioni, in particolare quella che
sarebbe stata, in America, l’esperienza delle chiese di santità e dei movimenti
pentecostali40. Fu Fletcher a definire l’esperienza della santificazione
(perfezione cristiana, seconda opera della grazia etc.) con l’espressione
biblica “battesimo di Spirito santo”:
Lastly: if we will attain the full
power of godliness, and be peaceable as the Prince of Peace, and merciful as
our heavenly Father, let us go on to the perfection and glory of Christianity;
let us enter the full dispensation of the Spirit. Till we live in the
pentecostal glory of the Church: till we are baptized with the Holy Ghost: till
the Spirit of burning and the fire of Divine love have melted us down, and we
have been truly cast into the softest mould of the Gospel: till we can say with
St. Paul, “We have received the Spirit of love, of power, and of a sound mind”
till then we shall be carnal rather than spiritual believers41.
Anche se l’espressione “battesimo di Spirito santo”
per indicare una “crisi” successiva alla giustificazione e rientrante nel
percorso di santificazione è tipica del lessico di Fletcher, notiamo che Wesley
pensò a costui come suo successore proprio negli anni in cui egli sistemava teologicamente,
predicava e praticava la dottrina del battesimo di Spirito santo: erano gli
anni che van- no dal 1770 al 1778, quando più forte montava la polemica con i
riformati di tradizione calvinista e, pertanto, più bisognava essere attenti
all’esposizione dottrinale.
Durante l’Ottocento la dottrina
wesleyana dell’intera santificazione continuò a essere carattere distintivo e
irrinunciabile del popolo detto metodista. Tuttavia in questo periodo
registriamo due fenomeni che devono essere presi in considerazione
contestualmente: 1. il numero dei membri di Chiesa che aveva- no chiara
consapevolezza della dottrina e che potevano parlare dell’esperienza
dell’intera santificazione come di un evento della loro vita vissuta andava
gradualmente riducendosi; 2. questo patrimonio dottrinale ed esperienziale
infiammava la spiritualità e diventava articolo di fede di gruppi che
originariamente al metodismo erano estranei.
Possiamo individuare un’attenzione verso la seconda opera dello Spirito in
due distinti movimenti che hanno origine negli Stati Uniti: 1. il Movimento
di Santità nato negli anni trenta dell’Ottocento; 2. il Movimento
pentecostale nato
nel primo decennio del Novecento. L’uso del singolare è quanto mai
improprio nell’uno come nell’altro caso poiché si è trattato di una pletora di
figure e congregazioni di cui qui non è il caso di tentare una configurazione.
Emerge un dato chiaro: la culla di tutto ciò è costituita dal metodismo.
I coniugi metodisti Phoebe e Walter Palmer, a New York, iniziarono
nel 1835 i Tuesday Meetings. Contemporaneamente il rev.
metodista Timothy Merritt pubblicava a Boston il suo periodico Guide to
Christian Perfection. L’anno dopo nell’Ohio il teologo Asa
Mahan (1799-1889) fondava l’Oberlin College che sarebbe
stato pulpito per la dottrina della perfezione cristiana così come
dell’integrazione tra bianchi e negri. Nascono le chiese dette “di santità”
poiché pongono la dottrina della seconda opera della grazia, come codificata da
Wesley, a fondamento della loro stessa esistenza.
L’esperienza dello Spirito, che
visita chi è già credente, tornò a scuotere la cristianità americana ai primi
del Novecento. Nel 1901 il metodista Charles Parham (1873-1929) a
Topeka, nel Kansas, presso il suo Betel Bible College, rivisse
l’esperienza di Pentecoste, corredata dal segno delle lingue, come in Atti 2.
Nel 1906, un predicatore di colore, William J.
Seymour (1870-1922), si distaccò dal suo gruppo e a Los Angeles diede
luogo all’Azusa Street Revival: la seconda ope- ra della grazia si
manifestò anche qui con le lingue. Nacque così il Movimento pentecostale che
ben presto sarebbe traboccato dai pur ampi bacini originari del metodismo:
la North Avenue Full Gospel di William
Durham (1873-1912) fu un nuovo pulpito per la dottrina del battesimo
di Spirito santo, e questa volta a farsi avvocato dell’esperienza era un
riformato.
Semplificando al massimo: i due movimenti sono legati da un filone di con-
tinuità pur se sono distinti da varietà di atteggiamenti; ambedue traggono la
loro ragion d’essere dalla dottrina di una seconda visitazione dello Spirito
che è insegnamento wesleyano. Il primo pone l’enfasi sull’opera di
purificazione del cuore e utilizza il lessico di Wesley. Il secondo, pur non
trascurando il lavoro del- lo Spirito nel credente, fa
proprio, come suo segno distintivo, il parlare in lingue.
Rileviamo che quanto si pubblica e si divulga oggi su questi temi è
prodotto principalmente dalle chiese di santità laddove le denominazioni
metodiste “ufficiali” sembrano mettere il tutto in seconda fila. Nel mondo
pentecostale l’eredità wesleyana è viva e vegeta in quanto vissuta e
costituisce, per così dire, una spina dorsale teologica che però l’osservatore
esterno non sempre apprezza a prima vista poiché la sua attenzione è assorbita
dal fenomeno della glossolalia che ruba la scena. Da parte del credente
pentecostale, la consapevolezza di questa eredità teologica è sovente mancata a
causa vuoi del carattere popolare del movimento vuoi dell’enfasi sul segno
esteriore delle lingue che agisce da elemento identitario. Ma il porre l’enfasi
sul segno piuttosto che sulla realtà interiore è nettamente criticato dalle più
avvedute guide del movimento per le quali, in linea con Wesley, l’opera
dello Spirito ha valore prima di tutto nella sostanza profonda del suo essere e
secondariamente nelle manifestazioni indotte.
Asserire che il Movimento pentecostale non abbia una sua spina dorsale
teologica significa commettere errore di valutazione; significa ignorare le
pagine di storia della teologia e della pietà cristiana sopra ricordate. Eppure
sovente si considera il pentecostalismo come una forma di emotività a tratti
convulsa42 la quale potrebbe sposarsi con qualsivoglia tradizione di
pensiero cristiano; si ritiene insomma che esso si esaurisca in una sorta di
frammentaria empiria spirituale. La teologia che sta alla base dell’identità
pentecostale non può considerarsi un boccale vuoto che indifferentemente
possiamo riempire alle fontane di qualsivoglia corrente di pensiero
protestante, né si risolve in una mera azione di riscatto sociale di classi
subalterne.
Quattro anni di lavori della
Wesleyan/Pentecostal Consultation hanno prodotto un ampio volume43 a più
voci la cui tesi centrale coincide con quanto sopra enunciato: il radicamento
del pentecostalesimo nella teologia wesleyana. Studiosi di diversa competenza
avevano già indicato nei movimenti pentecostali quel che rimane oggi della più
autentica dottrina e pratica wesleyana. È il parere espresso dallo storico
David Hempton44, dal teologo Frederick Dale Bruner45, dal sociologo David
Martin46. Dunque va giudicata con molta cautela la tesi del pentecostalesimo
come “quarto protestantesimo”47 contro la quale F. Toppi ha reagito
affermando che questo affonda invece le sue radici nei tradizionali movimenti
evangelici di risveglio e specificando poi la derivazione storica e teo- logica
del pentecostalesimo, e in particolare delle Assemblee di Dio in Italia, dal
risveglio metodista48. G. Beretta (1853-1923), un pioniere del
pentecostalesimo italiano, si convertì e servì per lungo tempo quale
predicatore in una Chiesa metodista negli usa49. Nello stesso tempo mi sembra
destituito di fondamento il tentativo di P. P. Pinson di sottrarre la teologia
fondante delle neonate Assem- blies of God in America alla
“genealogia spirituale”50 che le collega alla tradizione wesleyana: quanto
da costui scritto nel suo The Finished Work of Calvary51, infatti,
non cancella il fatto evidente che il “battesimo di Spirito santo” è una
puntuale seconda opera della grazia di Dio susseguente alla conversione.
E in Italia?
Alle origini del metodismo in Italia troviamo: 1. il desiderio di portare
al di qua delle Alpi la dottrina e l’esperienza di Wesley inclusa la perfezione
cristiana; 2. l’impegno a ricondurre gli italiani alle scaturigini del Vangelo,
sforzo inteso anche come tentativo di combattere l’“apostasia” della Chiesa di
Roma.
Non era facile mantenere l’equilibrio tra queste due anime che potremmo
definire semplificando approssimativamente “spiritualista” e “sociale”.
L’interesse del mondo inglese verso il Risorgimento e Porta Pia fu incisivo
sull’azione metodista, come dimostrano gli studi di G. Spini52. Lo zelo
proselitistico di non pochi ex sacerdoti cattolici53 divenuti predicatori
metodisti fu caratterizzato da una vistosa filigrana anticlericale. Ciò
contribuì ad alimentare l’accoglienza che la Libera Muratoria riservò a
numerosi pastori metodisti e spiega anche perché costoro si siano trovati a
loro agio tra le colonne del tempio massonico. Ne derivò il fenomeno definito
da Giuseppe Gangale del “masson-evangelismo” che non approdò a derive
relativistiche e non agì da remora ai fini dell’impegno missionario
evangelistico che anzi sempre sorresse. La Massoneria italiana a cavallo tra
Ottocento e Novecento era modellata su quella francese, pervasa di spiriti
repubblicani e socialisti, attardata al seguito della cultura positivistica. I
ministri di culto metodisti che si fecero iniziare giovarono, per quanto
possibile, a “correggere” queste tendenze irrituali e preferirono la più
ortodossa sintonia con la Massoneria britannica che vigilava affinché “stupidi
atei e libertini” non inquinassero il carattere teista e sostanzialmente
protestante del sodalizio, coerentemente con i suoi statuti e regolamenti
originari54.
Sembra un po’ troppo radicale l’affermazione di Valdo Vinay secondo la
quale le ragioni teologiche del metodismo non avevano molto senso nell’Italia
risorgimentale e gli italiani mai le compresero. Stando alla documentazione
disponibile è un errore pensare che il metodismo italiano abbia lasciato oltre-
manica l’insegnamento wesleyano dell’intera santificazione e si sia dedicato
sin da subito esclusivamente a opere sociali e battaglie di tipo politico.
Certamente quest’ultima sensibilità si sarebbe andata gradualmente affermando,
talvolta an- che a scapito dell’identità del popolo metodista, ma così non fu
all’inizio e per lunghi decenni.
Per conoscere l’animo del rev. William Arthur, che nel
1859 fu mandato in Italia a inaugurare il lavoro evangelistico per conto della
società missionaria metodista di Gran Bretagna, si legga il suo The
Tongue of Fire: Or the True Power of Christianity scritto nel 1856
dove la pienezza dello Spirito (secondo Wesley) era considerata una
caratteristica del cristiano da sperimentare come corredo ordinario della sua
esperienza di fede. Non era solo questione di dottrina. Nel 1863 un anonimo
trattatello, partorito in ambienti delle Chiese dei fratelli55 con il
titolo Principii della Chiesa Romana, della Chiesa Protestante e della
Chiesa Cristiana, bersagliava i metodisti per la «loro strana dottrina
della perfezione cristiana, co’ loro sospiri, e con un esteriore che può
prendere nella rete qualche cristiano debole»56. L’insegnamento di Wesley era
elemento fondamentale per la Chiesa che si voleva modellare, e ciò spiega la
priorità di pubblicare i Ventidue sermoni di Wesley da
parte del comitato missionario riunitosi nel luglio del 1868 a Parma.
Nel 1888 giunse in Italia dagli
Stati Uniti il missionario Everett S. Stackpole con un mandato a occuparsi
tramite una scuola teologica della formazione dei pastori secondo l’identità
wesleyana. Due anni dopo fu tradotto e dato alle stampe per un’ampia diffusione
il testo più significativo per un metodista: La perfezione
cristiana di Wesley. Ecco le sue parole di raccomandazione nella pre-
fazione le quali attestano il pensiero wesleyano classico e sembrano tratte da
un appello pentecostale:
Ed ora a tutti gl’Italiani che vorrebbero essere imitatori di Giovanni
Wesley, siccome egli lo era di Cristo, ed a tutti coloro che desiderano la
santificazione dello Spirito, il battesimo della Pentecoste, il rivestimento
della virtù dall’alto, l’amore perfetto o la perfezione cristiana (perciocché
tutti questi termini vogliono dire la stessa cosa), dedichiamo questa
traduzione [...]57.
Il “Grand Dessein” del soprintendente metodista episcopale William
Burt58comprendeva la realizzazione di una Chiesa evangelica “di massa” da con-
trapporre al cattolicesimo, l’edificazione di templi attraenti, un’azione
formativa atta a penetrare nei ceti più agiati e influenti, ma non escludeva
l’insegnamento della perfezione cristiana. Ne abbiamo prova dai programmi della
scuola diretta dallo Stackpole e dalle raccomandazioni reiterate dello stesso
Burt: la “disciplina” che i pastori italiani erano chiamati a metabolizzare non
era solo un testo autorevole negli Stati Uniti, ma aveva il suo pregio poiché
comprendeva la dottrina e la pratica dell’evangelizzazione e della
santificazione come base per la vita cristiana. Burt parlava di accettare
le nostre dottrine, i nostri metodi, le nostre istituzioni,
la nostra letteratura. Gli ardori risorgimentali erano alle
spalle: rimaneva lo spirito e l’identità wesleyana; a chi erroneamente lo
accusava di americanizzare la Chiesa il Burt rispondeva che si trattava di
essere coerenti con la denominazione che si portava. Il vescovo Walden,
presiedendo la decima Conferenza della Chiesa nel 1891, ammoniva i pastori
subordinando il successo della loro missione alla conoscenza e all’esperienza
di quel che è il tratto più caratterizzante e irrinunciabile del metodismo:
«Non conosco nessun insegnamento nostro che non possa convenire ai bisogni del
popolo italiano, ed è appunto per l’ignoranza sua di alcune dottrine speciali,
come quella della santificazione della certezza della personale salute, che
egli non è in migliori condizioni religiose e morali»59.
Si leggano
inoltre le numerose pagine dedicate all’opera dello Spirito santo nel credente
come seconda opera della grazia nel volume di M. Hughes tradotto come Principi
fondamentali del cristianesimo60. L’autore fu dal 1921 al 1937 il primo
rettore della Wesley House di Cambridge. Questa importante istituzione
accademica era stata realizzata nel 1921 da un napoletano d’adozione: Michael
Gutteridge, agiato commerciante di stoffe scozzesi, pio credente metodista che
a Napoli si era trasferito per goderne del clima e per dar vita alla sua
fiorente attività.
Oggi ravvisiamo nei sogni dei padri
del metodismo italiano buona dose di utopismo; possiamo anche guardare
dall’alto in basso il loro furore anticlericale, così possiamo meravigliarci
del loro affollare i templi massonici, ma sta di fatto che il lavoro eroico di
questi “padri” ha posto le basi di quel che è oggi buona parte dell’evangelismo
italiano61. Ho motivo di credere che anche il mondo pentecostale italiano possa
annodare qualche sua radice a questa età del metodismo italiano, e ciò sia dal
punto di vista del terreno di coltura sia, più ancora, per quanto riguarda
l’identità teologica che ha comune baricentro, per dirla con J. Fletcher, nel
battesimo di Spirito santo.
Alla luce di tutto ciò desta meraviglia quella che mi sembra una lacuna nel
dialogo tra valdesi, metodisti e pentecostali avviato nel 199862 e poi
successiva- mente ripreso63. Il metodo con cui si è lavorato è ineccepibile:
procedere dando spazio dapprima alle dottrine condivise, poi a quelle sulle
quali si dissente sia pur senza divisione e finalmente a quelle dove la
divergenza è più o meno radicale. Quanto attiene all’opera dello Spirito santo
nel credente è stato fatto rientrare nella prima categoria64. Il documento a
stampa che ne è derivato consiste in un denso accorpamento di citazioni
bibliche che però manca di cogliere quella che è da considerarsi una base
comune tra metodisti e pentecostali65; è infatti inspiegabilmente assente la
dottrina della seconda opera della grazia, l’opera di purificazione del cuore
narrata come perfezione cristiana (Wesley) o come battesimo di Spirito santo
che conferisce potenza (Fletcher, pentecostali)66.
Quanto al pentecostalesimo italiano direi che esso non è stato sfiorato per
niente dalla controversia che in America contrappose intorno al 1911 due visio-
ni del processo di santificazione: la prima, prettamente wesleyana, di un’opera
della grazia articolata nei momenti della giustificazione, della santificazione
e del battesimo di Spirito; l’altra, enfatizzata da predicatori d’origine
riformata, che poneva la santificazione al momento della giustificazione e poi
l’esperienza del battesimo in Spirito. Sostenitore di quest’ultima posizione
(detta “Finished Work”) fu quel William Durham67 (1873-1912) che
tanta parte ebbe nella con- versione di L.
Francescon (1866-1964)68, pioniere del pentecostalesimo in Italia.
Quest’ultimo non si pronunciò mai sulla “Finished Work Controversy”: gli
sarebbe stato difficile se si pensa che il Durham morì poco dopo l’inizio della
controversia; egli stesso ebbe stoffa di evangelista piuttosto che di teologo
sistematico. Si pensi, inoltre, che «il movimento pentecostale italiano ha la
caratteristica di non aver subito alcuna influenza straniera... Il Movimento
ebbe sin dal principio una sua fisionomia ben precisa»69. Sta di fatto che lo
statuto dottrinale delle Assemblee di Dio, il più rilevante gruppo pentecostale
italiano, colloca l’esperienza del battesimo dello Spirito santo in un momento
distinto e successivo da quello della rigenerazione, rendendola una tappa di un
seguente e progressivo processo di santificazione. Siamo in pieno clima
wesleyano e metodista!70
A mo’ di conclusione
La controversia anticattolica dei metodisti italiani
dell’Ottocento grondava di citazioni patristiche. L’argumentum
patristicum era lo strumento ideale per confutare il cattolicesimo con
le sue stesse armi. Le loro pagine sembrano sviluppare quanto Wesley aveva
scritto nella sua confutazione del Roman Catechism71.
Rimaneva però la volontà
di collegarsi al patrimonio patristico comune ai seguaci di Gesù. Poi il
protestantesimo italiano, quello “storico”, avrebbe abbandonato l’interesse per
la letteratura e la storia della cristianità antica concentrandosi
esclusivamente sui temi della Riforma e della modernità teologica72.
Concludendo: Wesley non
ebbe sensibilità ecumenica; non avrebbe potuto averla poiché la categoria di
“ecumenismo” non esisteva ancora. Tuttavia, la presenza di autori cristiani
antichi, le cui opere sono un patrimonio della cristianità indivisa,
costituisce un sicuro fondamento di ecumenicità genuina. Ciò può dirsi vero
specialmente per la dottrina e l’esperienza della santificazione, patrimonio della
Chiesa antica e indivisa che avvicina l’insegnamento metodista a quello
cattolico fatte salve le differenze profonde.
Il movimento metodista è stato fecondo. La sua
pneumatologia ha fondato l’esperienza (e la teologia) delle chiese di santità
come del pentecostalesimo. Grazie a questa linea genealogica anche questi
ultimi movimenti hanno acquisito (con diverso grado di consapevolezza) una
componente “patristica” che può farsi valere quale fondamento ecumenico nel
solco della “fede insegnata una volta e per sempre ai santi”.
* Università degli Studi di Napoli
L’Orientale
NOTE
1.Cfr. G. Rinaldi, Le fonti per lo studio delle eresie cristiane
antiche, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2015.
2.Gli scritti di Wesley sono qui utilizzati secondo la seguente edizione: The
Works of the Rev. John Wesley, 14 voll., a cura di Th. Jackson,
3rd edition, London 1829-31 (rist. 1872), rist. anastatica Baker
Book House, Grand Rapids (mi) 1978. Le citazioni sono pertanto rese con la
sigla WW, numero del volume e indicazione delle pagine.
3.WW v, pp. 492-504.
4.WW x, pp. 173-5.
5.Cfr. G. Cereda, L’opera dello Spirito Santo nella santificazione
del credente. La Pneu- matologia di John Wesley, Ex Libris, Palermo 2012,
pp. 9, 16 ss.
6. Cfr. R. C. Monk, John Wesley: His Puritan Heritage, Epworth
Press, London 1966.
7.T. A. Campbell, Wesley e i Padri della Chiesa, in F.
Cavazzutti Rossi (a cura di), La santificazione nelle tradizioni
Benedettina e Metodista, Il Segno, San Pietro in Cariano 1998,
pp. 53-71. Sui rapporti tra Wesley e i Padri della Chiesa
(occidentali e orientali) sul tema della santificazione cfr. anche
Cereda, L’opera dello Spirito santo, cit., pp. 77-91.
8.Cfr. il classico di R. N. Flew, The
Idea of Perfection in Christian Theology: An Histor- ical Study of the
Christian Ideal for the Present Life, Oxford University
Press, Oxford-London 1934.
9.Cfr. R. Maddox, John Wesley and Eastern Orthodoxy: Influences,
Convergences and Differences, in “The Asbury Theological Journal”, 45, 2,
1990, p. 30.
10.Ad esempio W. Reeves, The Apologies of Justin Martyr,
Tertullian, and Minucius Felix in Defence of the Christian Religion, London
1709, p. 3.
11.Questo sentimento ancor più si palesava
in altre due sue realizzazioni riguardanti le vite esemplari dei cristiani
vissuti prima di Costantino (Apostolici) e dopo questo imperatore
(Ecclesiastici). Da qui, forse, l’idea più volte ripetuta da Wesley della
svolta costantiniana come fattore di corruzione che fece da spartiacque nella
storia della Chiesa.
12.T. A. Campbell, John Wesley and
Christian Antiquity: Religious Vision and Cultural Change, Kingswood, Nashville
1991, p. 13.
13.Cfr. infra, nota 18.
14.E. Stillingfleet, Irenicum: A Weapon Salve for the Churches’
Wounds or the Divine Right of Particular Forms of Church Government, London
1659.
15.Cfr. J. Wesley, The Mystery of Iniquity, in WW vi,
p. 261.
16.Come starà a dimostrare la magistrale biografia di questo imperatore che
nel 1853 lo svizzero Jacob Burckhardt diede alle stampe.
17.J. Wesley, The Mystery of Iniquity, in WW vi,
pp. 261-2. Lo stesso giudizio nel sermone 89 The More
Excellent Way, 1 (= WW vii, pp. 26-7); nel
sermone 102 Of Former Times (= WW vii,
pp. 163-4); nel sermone 115 The Ministerial Office, 8
(= WW vii, p. 276).18.WW vii, p. 424.
19.Sugli aspetti teologici dell’anticattolicesimo di Wesley cfr. Cereda,L’opera
dello Spirito santo, cit., pp. 27 ss.
20.WW x, pp. 86-128.
21.La prima cifra di ogni linea rimanda alla pagina secondo l’edizione
citata.
22.Cfr. T. A. Campbell, John Wesley and Conyers Middleton on Divine
Intervention in History, in “Church History”, 55, 1, 1986, pp. 39-49.
23.Cfr. supra, nota 18.24.Ad esempio nella controversia con Conyers
Middleton; cfr. J. Wesley, WW x, pp. 59-65, 76.
25.WW x, p. 484.
26.Cfr. Campbell, John Wesley and Christian Antiquity, cit., p.
111.
27.«Ho letto Macario ed ho pianto», annotava Wesley nel suo Journal riferendosi
agli anni giovanili.
28.E che egli aveva ricavato non dalla patristica bensì dalla Scrittura e
dalla sua stessa esperienza.
29.J. Wesley, Letter to a Member of the Society del 30
novembre 1774, in WW xii, pp.
297-8.
30.J. Wesley, To the Editors of Lloyd’s Evening Post, in WW iii,
p. 273.31.WW vi, pp. 328-9.
32.Non è il caso qui di affrontare il tema della genuinità del corpus delle Omelie
spi- rituali attribuite a Macario l’Egiziano detto anche il Grande (†
390 ca.) ma che, con più verosimiglianza, s’inseriscono ora tra le opere di
Macario Simone (o anche Pseudo Macario), autore attivo nella prima metà del
sec. v in area mesopotamica.
33.L’espressione, che sarà caratterizzante del lessico del moderno
pentecostalismo, ricorre invece nelle opere di John Fletcher che, anche per
questo aspetto, costituiscono un ponte tra metodismo e pentecostalismo.
34.Cfr. A. Snyder Howard, John Wesley and Macarius the Egyptian,
in “The Asbury Journal”, 45, 2, 1990, pp. 55-60; Campbell, John
Wesley and Christian Antiquity, cit., p. 62; J. K. Collins, John
Wesley: A Theological Journey, Abingdon Press, Nashville 2003, p. 199.
35.Nel volume figuravano anche i testi, sempre in traduzione inglese, di
Clemente Romano, Ignazio, Policarpo, del martirio di Ignazio e di Policarpo.
V’era poi anche un’ampia antologia delTrue Christianity (Wahres
Christentum) di John Arndt (1555-1621), teologo luterano prodromo
del movimento pietista, e ciò non deve sorprenderci se solo pensiamo all’alta
considerazione che questo teologo aveva per le Omelie pseudomacariane.
36.Così, ad esempio, una certa identificazione/confusione tra
giustificazione e santi- ficazione; l’idea della perfezione come una continua
progressiva ricerca appagata soltanto dopo la morte; l’individualismo della
proposta monastica e il suo ricorso alle buone opere. Cfr. D. C. Ford, Saint
Makarios of Egypt and John Wesley: Variation on the Theme of Santifi- cation,
in “Greek Orthodox Theological Review”, 33, 1988, pp. 288-9.
37.A. C. Outler (ed.), John Wesley, Oxford University Press,
New York 1964, pp. 9-10.
38.Cfr. R. Sheffield Brightman, Gregory of Nyssa and John Wesley in
Theological Di- alogue on the Christian Life, Tesi, Boston University,
1969. Cfr. anche Yong Hwa Lee, Gregory of Nyssa and John Wesley’s
Theological Dialogue on Christian perfection, Tesi, Concordia University,
Montreal 2004.
39. Campbell, Wesley e i Padri della Chiesa, cit., pp. 64-70.
40.Cfr. L. W. Wood, The Meaning of Pentecost in Early Methodism:
Rediscovering John Fletcher as John Wesley Vindicator and Designed Successor,
Scarecrow Press, Lanham (md), Oxford 2002.
41.J. W. Fletcher, Checks to Antinomianism, London 1833, p. 356.
42.Qualificare il movimento pentecostale soltanto in base alla spinta
emotiva e prescin- dendo dalla sua spina dorsale teologica significa,
paradossalmente, agire in sintonia, sia pur in modo “politicamente corretto”,
con la circolare ministeriale Buffarini Guidi del 1935 che giudicava il culto
pentecostale basandosi sulle agitazioni di chi lo praticava.
43.Presso il Nazarene Theological Seminary di Kansas City; cfr. H. H.
Knight iii (ed.), From Aldersgate to Azusa Street: Wesleyan, Holiness,
and Pentecostal Vision of the New Creation, Pickwick, Eugene (or) 2010,
spec. alle pp. 365-8. Inoltre cfr. R. J. Stephens, The
Holiness/Pentecostal/Charismatic Extension of the Wesleyan Tradition, in R.
L. Maddox, J. E. Vickers (eds.), The Cambridge Companion to John Wesley,
Cambridge University Press, Cambridge 2010, pp. 262-81.
44.D. Hempton, Methodism: Empire of the Spirit, Yale University
Press, New Haven 2005, pp. 208-9.
45.F. Dale Bruner, A Theology of the Holy Spirit, Eerdmans,
Grand Rapids 1973, p. 37.
46.D. Martin, Pentecostalism: The World Their Parish, Blackwell,
Oxford 2002, p. 167.
47.Così per M. Introvigne, La sfida pentecostale, Elledici,
Torino 1996 e I Pentecostali, Elledici, Torino 2004, recependo gli
assunti di R. Finke, R. Stark, The Churching in
America, 1776-1990: Winners and Losers in Our Religious Economy,
Rutgers University Press, New Brunswick (nj) 1992.
48.F. Toppi, Quarto protestantesimo?, in E. Stretti, Il
Movimento pentecostale. Le As- semblee di Dio in Italia, Claudiana, Torino
1998, pp. 91-5 (originariamente nella rivista delle adi “Cristiani
oggi”, 15, 1996); Id., E mi sarete testimoni. Sommario di storia del
movimento pentecostale e delle Assemblee di Dio in Italia, adi-Media, Roma
1999, pp. 9-13.
49.Cfr. ivi p. 17, nota 27; ringrazio per questa precisazio- ne
il past. E. Cardarelli il quale mi fa pure presente il collegamento
tra metodismo-Charles Parham-movimento di Santità-pentecostalesimo.
50.L’espressione deriva dallo storico valdese Emilio
Comba (1839-1904) ed è fatta pro- pria da F. Toppi per rivendicare
l’afferenza del pentecostalesimo alla tradizione risvegliata di cui Wesley fu
esponente, cfr. nota 49.
51.Cfr. V. Synan, The Holiness
Pentecostal Movement, Eerdmans, Grand Rapids 1971, pp. 152-4.
52.Ad esempio Risorgimento e protestanti, Claudiana, Torino
1998, spec. il cap. vii su L’Inghilterra e il mito dell’Italia
protestante. Cfr. inoltre T. Macquiban, L’atteggiamento della
stampa metodista britannica verso l’Italia nel periodo precedente il 1862,
in F. Chiarini (a cura di), Il Metodismo italiano (1861-1991), Claudiana,
Torino 1997, pp. 47-54.
53.Si pensi, per citare solo alcuni pochi esempi, a Francesco Sciarelli,
Giuseppe Mo- reno, Luigi Girone, Salvatore Ragghianti, Francesco Anelli, Donato
Patucelli, Ferdinando Bosio etc.
54.Cfr. M. Novarino, Massoneria e protestantesimo, in G. M.
Cazzaniga (a cura di), Storia d’Italia. Annali 21. La Massoneria,
Einaudi, Torino 2006, pp. 266-89.55.Vi si ravvisa, però, l’ispirazione del
conte Guicciardini e la mano di Teodorico Pie- trocòla Rossetti, cfr. F.
Chiarini, Storia delle chiese metodiste in Italia. 1859-1915, Claudiana,
Torino 1999, pp. 26-7.
56.Ivi, p. 36.
57.La Perfezione cristiana del Rev. Giovanni Wesley tradotta
dall’inglese, Barbera, Fi- renze 1890, p. 7. Testo edito successivamente in
traduzione italiana da M. Rubboli, John Wesley, La perfezione cristiana, gbu-Claudiana,Chieti-Torino 2013.
Utile l’antologia di venti sermoni di Wesley a cura di F. Cavazzutti
Rossi, La perfezione dell’amore, Claudiana, Torino 2009.
58.Cfr. G. Spini, Il «Grand
Dessein» di William Burt e l’Italia laica, in Chiarini (a cura di), Il
Metodismo italiano (1861-1991), cit., pp. 109-20.
59.Cfr. Chiarini, Storia delle
chiese metodiste, cit., p. 98, nota 7.
60.M. Hughes, Principi
fondamentali del cristianesimo, trad. di E. Tagliatatela, Risve- glio, Roma
1932, pp. 163-262.
61.Per la generazione successiva a
quella “risorgimentale” cfr. V. Benecchi, Guardare al passato, pensare al
futuro. Figure del metodismo italiano, Claudiana, Torino 2011.
62.Valdesi, metodisti e pentecostali in
dialogo. i. Presentazione di P. Ricca, Claudiana, Torino 2002 con
quattro documenti rispettivamente relativi a: il dialogo (significato, moda-
lità, struttura e scopi), la fede nel Dio trinitario, la fede in Gesù Cristo,
la fede nello Spirito santo.
63.Valdesi, metodisti e pentecostali in
dialogo. ii. Presentazione di P. Ricca, Claudiana, Torino 2010 con due
documenti rispettivamente sull’ecumenismo e la Scrittura.
64.Valdesi, metodisti e pentecostali,
cit., i, pp. 47-9.65.Come abbiamo visto evidenziato nella più
recente e approfondita riflessione comu- ne tra metodisti e pentecostali,
cfr. supra, nota 43.
66.Valga a prova di ciò l’analisi di P.
Naso, «Dentro la trama delle vicende del Paese». Il metodismo nello
spazio pubblico italiano (1975-90), in Id. (a cura di), Il
protestantesimo nello spazio pubblico. Il contributo del metodismo,
Carocci, Roma 2015, pp. 67-77, 85-99. Forse per- ché ora nel
metodismo italiano quanto attiene alla riflessione identitaria sembra aver
ceduto il passo a temi di analisi politica e a conseguenti scelte di campo.
67.Cfr. A. L. Clayton, The
Significance of William H. Durham for Pentecostal Histo- riography, in
“Pneuma. The Journal of the Society for Pentecostal Studies”, 1, 1979,
pp. 27-8. Cfr. supra, nota 51, in merito a P. P. Pinson e
alla fondazione delle Assemblies of God negli usa.
68.Cfr. F. Toppi, Luigi
Francescon. Antesignano del Risveglio pentecostale Evangelico Italiano, adi-Media, Roma
2007.
69.F. Toppi, Caratteristiche,
problemi, prospettive delle Assemblee di Dio, in Stretti, Il
Movimento pentecostale, cit., pp. 82-3.
70.Cfr. S. Esposito, Un secolo di
pentecostalismo italiano. Cenni sulle origini, le discus- sioni parlamentari,
l’assetto contemporaneo delle Assemblee di Dio in Italia, s.l. 2015, p. 35.
71.Cfr. supra, nota 20.
72.Prova ne è, purtroppo, la scarsa attenzione didattica verso tali
discipline antichistiche e la conseguente ridotta produzione in questi
settori di quella che è la più nota istituzione formativa del protestantesimo
italiano: la Facoltà Valdese di Teologia.