Commento alla liturgia della III domenica dopo l'Epifania
Colletta
Dio Onnipotente
ed eterno, guarda con misericordia le nostre infermità e in ogni nostro
pericolo e necessità stendi la tua mano destra per aiutarci e difenderci. Per
Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Letture:
Rm 12,16-21; Gv 2,1-11
Il Vangelo di oggi ci presenta il primo miracolo
pubblico di Gesù, la trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana. Fin
dai più antichi lezionari per la messa questo episodio è collegato
all’Epifania, ovvero alla manifestazione di Gesù come il Signore, insieme agli
episodi della nascita a Betlemme, dell’arrivo dei Magi e del battesimo al fiume
Giordano.
È significativo che il primo grande miracolo
pubblico di Gesù non sia una guarigione o una liberazione dai demoni, ma una
manifestazione della sua potenza divina collegata a un evento gioioso, un
miracolo che potremmo definire non strettamente “utilitaristico”, ma legato in
quache modo a una componente “edonistica”, al piacere della convivialità.
Gesù, che pure, abbiamo ascoltato nella lettura
della scorsa settimana, si era sottoposto al battesimo penitenziale di
Giovanni, riprendendo la sua predicazione incentrata sul richiamo alla conversione,
propone con il suo Vangelo una via che non è imperniata sulla macerazione
ascetica, come a volte, nella storia, il messaggio cristiano è stato tradotto.
Pur mettendoci in guardia contro il Principe di questo mondo che, ci dice in
maniera molto chiara, è Satana (Gv 12,31), pur dichiarando davanti a Pilato che
il suo Regno non è di questo mondo (Gv 18,36), Gesù è in grando di cogliere ed
evidenziare quanto di buono c’è nella nostra vita terrena, l’amicizia, la
condivisione della mensa con gli amici, tanto da essere criticato duramente, da
coloro che lo definiscono un mangione e un beone, amico dei peccatori (Mt
11,18). La risposta di Gesù esprime tutto il suo sconforto verso una
generazione che ha respinto tanto la testimonianza di Giovanni, profeta e
penitente nel deserto, quanto la sua, di Pastore buono capace di andare
incontro ai lontani per ricondurli al Padre: “Ma a chi paragonerò questa
generazione? Essa è simile a fanciulli seduti nelle piazze, che si rivolgono ai
loro compagni e dicono: ‘Noi vi abbiamo sonato il flauto e voi non avete
ballato; abbiamo intonato lamenti e voi non avete fatto cordoglio’” (Mt
11,16-17). Il suo giudizio è molto severo verso coloro che non hanno saputo
riconoscere la manifestazione del Signore nelle opere che egli ha compiuto: “Allora
egli cominciò a rimproverare quelle città, in cui la maggior parte delle sue
opere potenti erano state fatte, perché esse non si erano ravvedute” (Mt
11,20).
Il Vangelo di oggi dovrebbe portarci a
riconsiderare il nostro rapporto, come credenti, con il mondo. Il mondo vuole
farci suoi, legarci a sé; in qualche modo ci trascina verso il basso e, quando
non riesce a vincere la nostra resistenza, scatena contro di noi il suo odio:
“Se il mondo vi odia, sappiate che ha odiato me prima di voi” ci avverte Gesù
(Gv 15,18). Eppure noi siamo stati chiamati a essere nel mondo, a predicare il
Vangelo in tutto il mondo, ad ogni creatura (Mc 16,15), e Dio steso “ha tanto
amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio” (Gv 3,16). Il nostro
atteggiamento verso questo mondo, con tutto ciò che lo caratterizza, compresa
la nostra umanità, le nostre passioni, i nostri desideri, la ricerca stessa del
piacere, non può essere di puro diprezzo. La riforma anglicana è spesso stata
definita una “Via Media” tra cattolicesimo e protestantesimo, ma potremmo
considerarla una via media anche per la sua riscoperta della sobrietà
evangelica, la cui etica radicale è sempre ben distante tanto dalla
dissolutezza che dal rigorismo ascetico; per queso il messaggio evangelico,
assimilerà nella cristianità occidentale, la virtù romana della mediocritas, ovvero la ricerca di un
sano equilibrio tra la dimensione “orizzontale” della vita e quella
“verticale”, tra le necessità del corpo e quelle dello spirito, la fuga di ogni
eccesso. Ma nel primo cristianesimo è subentrata anche l’influenza di correnti
filosofiche della Grecia antica, come lo stoicismo, che accentuavano la critica
verso ciò che è “corporale”, fino alle forme più estreme, rappresentate ad
esempio dall’eresia montanista e manichea. La cultura romana, ma per certi
versi anche quella greca, avevano invece promosso, per l’uomo libero, l’ideale
di una vita armonizzata tra otium et
negotium, capace cioè di alternare la cura degli affari con la coltivazione
delle arti liberali, della musica, della poesia, di tutto ciò che rende l’uomo
libero dalla necessità. Il termine “ozio”, con il passare dei secoli è stato caricato
di una connotazione negativa, divenendo sinonimo di “pigrizia”. Ma nel mondo
antico, poi riscoperto dall’Umanesimo e dal Rinascimento, indicava la capacità
di essere signori anche del proprio tempo libero, dedicandosi ad attività
capaci di risollevare il corpo e lo spirito dalle fatiche quotidiane,
avvicinando l’uomo alle espressioni di ciò che è bello, buono, vero, e dunque
avvicinandolo al Sommo bene che è Dio.
Il messaggio che ci lancia Gesù con questo primo
miracolo, in cui trasforma in vino una trentina di litri di acqua (“sei
contenitori contenenti due o tre misure l’uno”) è molto chiaro: l’uomo ha il
pieno diritto di godere anche le gioie di questa vita. È questo messaggio è più
che mai attuale nella nostra epoca, ossessionata dalla produttività e
dall’efficienza. Spesso vengono ricordate le parole di Bob Kennedy, il quale
disse che il PIL, il Prodotto Interno Lordo, misura tutto, eccetto ciò che
rende le persone felici. La frase in realtà fu già affermata dall’inventore
stesso del PIL, Simon Kuznets, nel 1934; e fu profetica se consideriamo quanto
il nostro mondo sia ulteriormente scivolato in basso, in questa spirale
utilitaristica, che relega l’uomo a semplice ingranaggio di un meccanismo
diabolico, che produce e consuma incessantemente, come un malato con la pancia
strapiena ma incapace di avvertire alcun sapore sulla sua lingua.
La felicità, il piacere, nelle loro diverse
espressioni, come l’arte, la poesia, il buon cibo, la sessualità, diventano un
peccato solo quando vengono assolutizzati a discapito di altri aspetti
altrettanto importanti della vita; quando rompono l’armonia e l’equilibrio con
l’altrettanto necessaria coltivazione dei propri doveri, verso la famiglia, gli
altri esseri umani, se stessi; quando vengono gettati in un meccanismo di
produzione e consumo; quando da trampolino di lancio verso la crescita
spirituale diventano una zavorra che ci impedisce di prendere il volo. Ma se li
coltiviamo come un dono di Dio, fonte di ogni bene, e sappiamo porli al nostro
servizio, piuttosto che renderci loro schiavi, allora stiamo realizzando uno dei
più alti scopi della nostra vita. Perché Dio ci vuole felici, e vuole che la
nostra gioia sia piena (Gv 15,11).
Rev. Luca Vona
Missione Anglicana Tradizionalista Carlo I Stuart
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