Commento alla liturgia della IV domenica di Avvento
Colletta
Ti
supplichiamo Signore, solleva la tua potenza e vieni in nostro soccorso;
affinché mentre corriamo, affaticati e ostacolati, il percorso che ci hai posto
dinnanzi, la tua grazia e la tua misericordia, possano venire prontamente in nostro aiuto.
Per Gesù Cristo, nostro Signore, al quale, con te e con lo Spirito Santo, va
ogni onore e gloria, per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Letture:
Fil 4,4-6; Gv 1,19-28
Nella prime battute della colletta è richiamato il
Benedictus, il cantico di Zaccaria
che troviamo all'inizio del vangelo di Luca, dove un po' tutti cantano di
gioia: Maria con il suo Magnificat,
dopo l'annunciazione, Zaccaria, quando conferma che il bambino che sua moglie
Elisabetta ha avuto in tarda età dovrà chiamarsi Giovanni e improvvisamente la
sua lingua, chiusa in un misterioso mutismo, si scioglie. Anche gli angeli
cantano, a Betlemme, guidando i pastori verso la stalla dove è nato il Figlio
di Dio. Il Benedictus ci parla appunto di una
grande potenza che è venuta a visitarci dall'alto.
La colletta della quarta settimana di Avvento
prosegue richiamando la seconda lettera di San Paolo a Timoteo, sciritta dalla
prigionia, nella consapevolezza della morte imminente: ho combattuto la buona
battaglia, ho terminato la mia corsa,
ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore,
giusto giudice mi consegnerà in quel giorno. Ma come ci ricorda questa
preghiera liturgica la corsa può risultare estremamente faticosa, e può essere
non priva di inciampi, a volte di rovinose cadute, a causa del peccato e della
nostra debolezza. Il Signore, però, ci viene incontro, con la sua grazia e la
sua misericordia, proprio come il padre con il figlio pentito, il "figliol
prodigo" nel racconto dell'evangelista Luca, al capitolo 15. Un figlio che
ha sperperato tutto, tutto quel che
gli era stato dato. Un figlio cresciuto nella ricchezza, che ora si accontenta
di sfamarsi di ciò di cui si cibano i maiali che pascola, a servizio di
un'altro padrone, in terra straniera. Eppure agisce qualcosa in lui capace di
ridestarlo dal sonno, di muoverlo alla conversione: "tornerò da mio padre
e gli dirò...". Si prepara un bel discorso... ma mentre è ancora lontano, il padre lo riesce a scorgere, gli corre
incontro... qui è Dio a correre, non l'apostolo,
Il padre lo abbraccia e neanche lo ascolta, mentre
il figlio cerca di proncunciare quel discorso che si era preparato. Il padre
non lo ascolta perché è preso dall'ordinare ai suoi servi di prendersi cura del
figlio ritrovato, preparare un ricco banchetto, coprirlo della veste più bella.
La terra straniera ritorna più volte nella Bibbia
e nella storia di Israele. La terra
straniera, la terra dell'esilio è simbolo di una condizione esistenziale
segnata dalla lontananza da Dio, dalla sete della sua presenza, come canta il Salmo
42: Come la cerva anèla ai rivi delle acque, così l'anima mia anèla a te, o
DIO... L'anima mia è assetata del Dio vivente... mente mi dicono di continuo:
dovè il tuo Dio?" Ma fin dal primo atto di allontanamento da Dio compiuto
dai nostri antenati, troviamo nel libro dela Genesi un Dio che cerca la sua
creatura, perduta nella sua rigogliosa creazione, chiamandolo per il giardino: "Dove sei?". E anche dopo
l'allontanamento dell'uomo dall'Eden Dio appare e parla i Patriarchi. Come nel
sogno della scala in cui gli angeli salgono e scendono dal cielo, avuto da
Giacobbe in terra straniera. Qui Dio gli promette "Io sono con te e ti
proteggerò dovunque andrai... non ti
abbandonerò" e Giacobbe esclamerà: "Veramente in questo luogo c'era il Signore e non me ne ero
accorto". Sì, il nostro Dio è anche qui, nella terra del nostro
esilio, mentre pascoliamo maiali e ci nutriamo di carrube, sognando una scala
che possa elevarci in un luogo migliore, rimpiangendo una abbondanza che
percepiamo, nel nostro intimo, di avere posseduto un tempo e di avere perduto. Forse
non troviamo la via del ritorno, forse non troviamo il coraggio di un ritorno. Ma
Dio ci viene incontro appena ci scorge da lontano. E ci ricopre della veste più
bella. Quale veste? La sua stessa divinità. E come? Assumento la nostra natura,
la nostra veste, la nostra condizione umana. Questo è il mistero
dell'Incarnazione: un mirabile scambio di nature. Una dinamica circolare
ascendente-discendente, come quella degli angeli sulla scala di Giacobbe. Per
questo la letteratura cristiana antica, in Oriente, parla di theosis
e kenosis.
Perché l'incarnazione rappresenta al contempo la divinizzazione dell'uomo e la spoliazione di Dio. Lo stesso
apostolo Paolo nella sua lettera ai Filippesi lo afferma con parole eloquenti: Cristo
Gesù... essendo in forma di Dio, non considerò qualcosa a cui aggrapparsi
tenacemente l'essere uguale a Dio, ma svuotò
se stesso, prendendo la forma di servo, divenendo simile agli uomini; e,
trovato nell'esteriore simile ad un uomo, abbassò
se stesso, divenendo ubbidiente fino alla morte e alla morte di croce. Troviamo
qui il profondo legame tra
l'Incarnazione e la Passione, mistero in cui ci incammineremo, dopo il
tempo di Natale e la preparazione quaresimale alla Pasqua.
Dio ha spogliato se stesso, assumendo la nostra
natura, la nostra miseria, affinché non
vi potesse essere più alcuna regione dell'umano classificabile come terra
straniera..."senza Dio". Affinché saltassero per aria tutte le
distinzioni tra "sacro" e "profano". Affinché ciascuno di
noi potesse esclamare, come Giacobbe ridestatosi dal suo profetico sogno: «Certamente
l'Eterno è in questo luogo, e io non lo sapevo». Ridestiamoci dal sonno, dunque, e riconosciamo il Dio che si è
fatto uomo. Amen.
Rev. Luca Vona
Missione Anglicana Tradizionalista Carlo I Stuart
Chiesa Anglicana Tradizionalista Carlo I Stuart
Via delle Betulle 63 Roma (zona Centocelle)
Contatti / Contacts:
Rev. Luca Vona
info@societasanglicana.it
Mob. (+39) 3385970859
www.societasanglicana.it